Benedetta Piccoli con una collega
23 aprile 2016
Benedetta Piccoli con una collega

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Aiuti umanitari in aree di crisi


«Ma siamo davvero sicuri che tutta questa gente abbia bisogno?». È una domanda che mi pongo spesso da quando sono qua.

Ho imparato a conoscere gli usi locali e ad accettare i costumi e il modo di vedere le relazioni, la vita, la morte. Ho imparato ad andare oltre l’apparenza. Eppure questa domanda è difficile da sradicare.

Faccio parte di un progetto che prende il nome di «Aiuti umanitari in aree di crisi». Ecco perché, forse, mi aspettavo una realtà diversa, forse a tratti anche più disagiata di quella in cui mi trovo.

E allora cosa vuol dire aree di crisi? Crisi di che cosa? Crisi in relazione allo stato economico, sociale, sanitario? Certo sto in un continente diverso, in un contesto diverso rispetto alla mia «zona sicura», perciò tutto deve essere visto in relazione a questo. La «crisi» che c’è qua è completamente diversa da quella a cui sono stata abituata. Perché qua non è nemmeno percepita, loro non sanno nemmeno di essere in crisi, se glielo chiedi! Forse allora non saremmo noi occidentali a enfatizzare il significato di questa parola e a trovarle delle sfaccettature che nemmeno le competono?

Oggi stavo in sala operatoria. C’era un chirurgo dall’Italia, uno di quelli che passano per di qua. Non ha voluto operare. E’ stato in disparte, ha guardato ciò che succedeva, ha dato la sua opinione, e ha lasciato fare. Io assistevo. Già dopo il primo taglio con il bisturi (dall’ecografia si vedeva una massa addominale, non meglio identificata) quello che ci siamo trovati davanti è stato assurdo.

Era un tumore enorme, che non si capiva nemmeno da dove avesse origine. Sono partite le supposizioni. Il chirurgo locale chiedeva l’opinione di quello venuto dall’Italia che, con un garbo inaudito, rispondeva per quel che poteva, e incitava dall’esterno a proseguire, focalizzandosi sul fatto che pian piano le cose si sarebbero fatte più chiare.

Alla fine l’operazione è andata bene, è stato asportato un tumore ovarico di circa 4 chili da un chirurgo di 30 anni che ha eseguito la procedura in modo impeccabile. Dal canto mio ero ben felice di aver assistito attivamente, perché non credo che in Italia toccherò mai con mano qualcosa del genere, ma allo stesso tempo mi sono resa conto che tutto ciò che avevo visto e toccato era per me. Non per gli altri.

Tutti mi fanno i complimenti quando sanno del mio servizio civile all’estero, ma sento di non meritarli. Perché la loro «crisi» non è così reale, non come la intendiamo noi, la intendevo io. Credo che loro non abbiano bisogno di noi, siamo più noi ad aver bisogno di loro, perchè diamo troppo peso alle parole, e ci focalizziamo solo su quelle.

«Aiuti umanitari in aree di crisi». Ma non è questo! Scrolliamoci di dosso questa presunzione di voler globalizzare il significato delle parole. Oggi ho visto un medico in crisi in una situazione difficile, che voleva arrendersi, ma non lo ha fatto! E questa sua crisi gli è servita solo a crescere professionalmente e credo anche umanamente. Come quella stessa crisi è servita anche a me a crescere, ma di certo l’abbiamo vissuta in modo diverso.

In quella sala operatoria ognuno riconosceva la crisi dell’altro, che ne rispecchiava l’autenticità. Ed è questa la cosa bella. Perché per essere autentici bisogna assomigliare il più possibile all’idea che si ha di se stessi. Ed è quello che succede quotidianamente adesso. Vivo con la consapevolezza della diversità, non solo delle parole, ma soprattutto dell’essere.
Benedetta Piccoli
Volontaria Scn Auci in Kenya


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