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7 agosto 2016

News Calabria

Ricordando Antonio Gigliotti nel primo anniversario della morte


Ricorre domani il primo anniversario della morte del giornalista Antonio (Totò) Gigliotti, scomparso a Lamezia Terme all’età di 87 anni. Una messa in suffragio sarà celebrata lunedì 8 agosto, alle ore 19, nella Chiesa del Rosario, in piazza della Repubblica, dal nipote don Domenico Cicione. Il nostro giornale che ha avuto l’onore e il piacere di ospitare diversi suoi articoli, desidera ricordarlo pubblicando qui di seguito ampi stralci della sua autobiografia

Era l’ottobre del 1943, quando, quindicenne, iniziai la mia militanza nel PCI, partito per il quale anni dopo venni anche eletto consigliere comunale dell’allora Comune di Nicastro.

I primi cinque anni della mia vita li ho trascorsi a Nicastro, ora Lamezia Terme, dove nacqui nel 1928, il 25 settembre, nel rione Timpone.

Nel settembre 1944 mi iscrissi al Movimento Giovanile Comunista “Italia Libera”. Era il mese di ottobre e già nell’Italia liberata cominciavano a prendere corpo i Partiti e i Movimenti politici. Ci organizzammo e cominciammo l’attività. Ed io, dopo due mesi, entrai ufficialmente nel PCI con la tessera numero 794811.

Era, allora, segretario della sezione Antonio Reillo, antifascista onesto di vecchio stampo che successivamente sarà anche sindaco, sia pure per pochi mesi, della città di Nicastro.
Insieme con Reillo, che abitava a Bella, c’erano anche i fratelli Marino, nella cui falegnameria in Piazza Sacchi, durante e immediatamente dopo il periodo fascista si tenevano gli incontri di resistenti al fascismo. Fu in questa falegnameria che io, giovanissimo, ricevetti le prime notizie alle quali da tempo andavo alla ricerca, e ne divenni un assiduo frequentatore

Mio padre, Pietro, dopo la Grande Guerra, alla quale partecipò giovanissimo con il grado di sergente maggiore (era del 1899, appena 17 anni), emigrò negli USA, in Pensilvania, a Carbondale, dove prima erano emigrati suo padre Antonio e lo zio Francesco.

Dopo qualche anno, nel 1922, rientrò in Italia e si sposò con mia madre, Saveria Cavalieri, primogenita di un piccolo agricoltore, aprendo casa nel rione Timpone. Professionalmente era sarto, ma, volendo migliorare la sua posizione, decise di studiare alcuni elementi essenziali necessari per potere partecipare ad un concorso per macchinista di treno a vapore nelle Ferrovie dello Stato. Concorso che vinse. In seguito a ciò, nel 1934, ottenne la sistemazione a Crotone dove ci trasferimmo tutta la famiglia.

In questa città iniziai a frequentare le elementari e partecipai ad alcune recite organizzate dall’allora dirigente del Dopolavoro Ferroviario, Allegretti. Recite che vennero rappresentate negli stessi locali del Dopolavoro e ottennero un buon successo, tanto da essere replicate. Nel 1938, in seguito ad altro trasferimento, ci spostammo a Reggio Calabria.

Nel frattempo, mi iscrissi al ginnasio, ora Scuola Media, frequentando fino alla terza classe.

Quando il 10 giugno 1940 venne dichiarata la guerra, frequentavo la classe seconda del ginnasio Tommaso Campanella ed erano gli ultimi giorni di scuola. Lo scoppio del conflitto l’ho vissuto, quindi, a Reggio Calabria, dove sono rimasto per altri due anni. E fu durante la residenza a Reggio che mio padre conseguì anche l’abilitazione alla conduzione di automotrici (le note “littorine”) e successivamente anche l’abilitazione alla conduzione dei treni elettrici.

In seguito a ciò, nel 1943 venne trasferito a Sant’Eufemia Lamezia, come secondo dirigente del Deposito Locomotive. Di conseguenza, con la mia famiglia ritornammo nella vecchia casa del rione Timpone.

È inutile dire che da Nicastro, ora Lamezia Terme, non mi sono più mosso. Con qualche eccezione a Catanzaro quando ero corrispondente regionale de “l’Unità” e quando venni incaricato nella segreteria regionale al fianco di Mario Alicata e Luigi Silipo. Svolsi la mia attività di giornalista nella regione con puntate, da inviato, in Basilicata, Puglie, Abruzzo e tra gli emigrati calabresi in Piemonte oltre che nei Paesi dell’Est.

Nel corso dei primi anni di militanza attiva, e precisamente negli anni 1949/1950, presi parte a tutte le lotte bracciantili ed operaie. Ho subito ben tredici processi, insieme con altri dirigenti (Francesco Reale, Francesco Blaganò, Francesco Primerano, Armando Scarpino, Giuseppe Seta) ed alcune decine di braccianti e contadini.

Le accuse erano pesanti (associazione, istigazione all’odio e alla violenza, sovvertimento del potere e dell’ordine costitutivo dello Stato) ma caddero tutte nel corso dei processi celebratisi a Nicastro, presenti tra i difensori: Fausto Gullo, Francesco Spezzano, Luigi Tropeano, lo stesso Giuseppe Seta.

Un altro processo dove eravamo imputati, tra dirigenti e lavoratori, ben trenta e più persone, approdò in Cassazione e non ebbe più seguito.

Da studente, nel Liceo di Nicastro prima e Magistrale di Catanzaro dopo, ero riuscito ad organizzare molte agitazioni studentesche non solo politiche, ma anche, e soprattutto, per i problemi legati alle aule e al loro riscaldamento. Ciò spinse carabinieri e polizia a segnalare anche il mio nome nelle loro note informative che quotidianamente stilavano per ordine di Scelba sui cittadini che, sol perchè comunisti, venivano indicati come sobillatori, e in alcuni casi anche come sovversivi e antigovernativi.

Queste note furono all’origine della mia esclusione da alcuni concorsi sia come ispettore di Dogana, che come alunno d’ordine nelle Ferrovie dello Stato il cui Capo Compartimento allora era un ingegnere nicastrese il quale, malgrado suo fratello, mio professore di matematica, fosse antifascista, avallò rigidamente le direttive del governo DC del tempo. Direttive che miravano ad ostacolare gli “ingressi” dei comunisti nei posti statali messi a concorso. Erano gli anni dello “scelbismo” più marcato e del vile attentato a Palmiro Togliatti.

Alla fine del 1949, esattamente il 3 e 4 dicembre, fui il delegato di Nicastro alla Assise per la Rinascita della Calabria. Una manifestazione regionale, che si tenne a Crotone, al Cinema Apollo, conclusasi con un forte intervento di Giorgio Amendola. In quegli anni, e precisamente nel 1949-50, presi parte attiva, anche come dirigente, a tutte le lotte bracciantili ed operaie.

Decine di volte, in quei giorni, venni convocato sia presso il Commissariato di Pubblica Sicurezza, sia presso la Compagnia dei Carabinieri. Le convocazioni, affermavano i dirigenti gli uffici di polizia, erano un “atto dovuto” perché o dovevo essere interrogato o dovevano comunicarmi che ero stato denunciato. Una solfa, questa, che venne ripetuta sempre, in specie nei 13 processi che dovetti affrontare. E insieme con me decine di braccianti, operai e altri dirigenti, tutte persone stimate a Nicastro e provincia.

Per aggravare il peso delle denunce, la polizia, certamente su indicazioni del governo centrale, il cui ministero degli Interni era retto dal siciliano Mario Scelba, ricorreva maggiormente all’accusa che tutti gli imputati eravamo “sovvertitori dell’ordine costituito dello Stato”. Pertanto, meritavamo una condanna esemplare, puntando, senza riuscirvi, a stroncare ogni movimento di rinascita democratica.

Così, a più riprese, sul banco degli imputati comparimmo io insieme ad altri. Le accuse, pesanti, decaddero tutte nel corso dei tanti processi celebratisi a Nicastro, negli anni che vanno dal 1950 al 1951.

Agli inizi degli anni ’50, venni nominato Corrispondente Provinciale de “l’Unità”. In quel periodo frequentavo l’abitazione di Michele Vitale per un esame della situazione. Si tenevano, in altri termini, brevi riunioni alle quali parteciparono più volte dirigenti e intellettuali, specie nel corso delle lotte per il lavoro e la terra. Tra i tanti ricordo Rosario Villari (di Reggio Calabria) da noi noto come Sascia, che venne eletto successivamente al Parlamento, e poi Francesco Primerano, Francesco Reale, Armando Scarpino, Giuseppe Seta, tutti scomparsi, nonché Vittorino Fittante ed altri.

Divenni corrispondente del giornale “l’Unità“, dopo una brevissima esperienza, come corrispondente “volontario”, da Nicastro, della Voce di Napoli. Da “l’Unità” ebbi anche il compito di compiere, inizialmente, nella regione brevi puntate da inviato per qualche servizio su problemi strettamente regionali. Successivamente, fui utilizzato anche in Basilicata, Puglia, Abruzzo e tra gli emigrati calabresi in Piemonte.

Nello stesso tempo si avvertì la necessita di avere un “compagno sicuro” nella segreteria del Comitato Regionale, per curarne gli aspetti burocratici. E fu così che il compagno onorevole Mario Alicata, allora segretario regionale, nonché membro della Direzione Nazionale del PCI, di concerto con Gigino Silipo, ispettore regionale del P.C.I., decise di incaricarmi del lavoro della Segreteria Regionale.

Alla fine degli anni ’50, il 4 dicembre 1959, in occasione della venuta in Italia del generale Eisenhower, Presidente degli Stati Uniti, provai anche il carcere. Mentre mi trovavo sul corso Mazzini a Catanzaro con alcuni colleghi giornalisti, venni arrestato e rinchiuso nelle carceri San Giovanni, senza alcun motivo.

Seppi dopo, leggendo l’imputazione, che mi si accusava, addirittura, di avere “ordito” una protesta contro il Presidente degli USA. In realtà, qualcuno, puerilmente, con un gessetto scolastico, aveva riportato sul muro della Prefettura, distante appena 12-15 metri dalla Questura, frasi contro il generale americano che veniva tacciato ad esempio come “generale peste”, in virtù di alcuni suoi trascorsi militari non troppo lineari durante la guerra. Erano, quelli, i tempi del dopo Scelba e del “maccartismo”.

Si doveva, pertanto, dare il segnale che anche a Catanzaro si controllava tutto. Quindi, bisognava fare di tutto per montare un “caso”, arrestando, ad esempio, qualche noto comunista. La migliore opportunità la ebbero arrestando me che, oltre ad essere un giornalista comunista, ero anche nell’Ufficio di Segreteria Regionale del PCI.

Il mio arresto avvenne dopo che alcuni agenti, avendo scoperto delle frasi scritte con gessetti scolastici sul muro della Prefettura contro il generale Eisenhower. Per arrestare il “colpevole”, percorsero in lungo e in largo Corso Mazzini, senza trovare alcuno.

Continuando nella loro “ricerca” videro me intento a chiacchierare con gli amici giornalisti e, quindi, da grandi detective, procedettero al mio arresto con il disappunto dei presenti all’azione. Nella denuncia, tra le altre cose, aggiunsero l’aggravante della “flagranza di reato” che in occasione del processo si mostrò priva di consistenza perché l’arresto avvenne a oltre 800 metri dal luogo del “misfatto”.

Dopo l’arresto, la sera stessa fui rinchiuso nelle carceri San Giovanni di Catanzaro. La mia detenzione durò otto giorni, in una cella ristretta. Quando uscii in libertà provvisoria, concessami dal giudice su richiesta del mio legale, avvocato Giuseppe Seta, nel rione Timpone ci fu festa. Dopo mesi si celebrò il processo. Il Magistrato, di fronte a prove inconfutabili e alla labilità delle “accuse” mi prosciolse con formula piena. Fu cancellata anche l’accusa della “flagranza di reato” così come era stata formulata dalla Questura.

Anche la mia attività di giornalista fu contrassegnata da alcuni processi conclusisi tutti con la piena assoluzione.

Tra i tanti, ricordo il processo con l’accusa di “vilipendio al Governo” voluto dall’onorevole Vittorio Pugliese, allora sottosegretario agli interni che da me venne criticato su “l’Unità” perché, scortato da polizia e carabinieri, dopo avere compiuto una fugace visita (che definii una “toccata e fuga”), si allontanò velocemente da Sambiase, dove erano state erette le barricate per protestare contro la crisi vinicola.

Altra piena assoluzione nel processo intentato contro di me, Michele Melillo, allora Direttore Responsabile de “l’Unità”, e Gino Picciotto di Cosenza, dall’industriale Rivetti, della “Lini e Lane” di Praia a Mare per alcune critiche sull’organizzazione del lavoro in fabbrica.

Altre volte, invece, da qualche politico venne manifestata l’intenzione di denunciarmi per alcune critiche apparse su “l’Unità”, specie quando si ideò la costruzione del ponte sulla “Fiumarella”, a Catanzaro.

In quella occasione, facendomi forte di alcuni rilievi tecnici fornitimi dall’ingegnere comunista Italo Iannoni, ora deceduto, scrissi che le pareti delle due colline non erano state sufficientemente rafforzate, con iniezioni di cemento. Questo avrebbe potuto provocare uno smottamento del terreno, e, quindi, rappresentava un pericolo per la stabilità del ponte. Il fatto provocò alcune interrogazioni parlamentari. Il tentativo di querela svanì perché, dopo due/tre mesi circa, si verificò un crollo nella galleria del Sansinato, costruita proprio nella collina incriminata. La notizia mi venne data a Roma, dove mi trovavo per una riunione di redazione.

Continuai nelle mie inchieste e questa volta indirizzai la mia attenzione sulle Ferrovie “Calabro-Lucane” che erano da me accusate di “inadeguatezza”, con servizi corredati da fotografie pubblicati da “l’Unità”.

Questo avvenne molti giorni prima della famosa “Tragedia della Fiumarella” del 23 dicembre 1961 che fu immensa. Era accaduto che un treno, abbordando una curva sul ponte della Fiumarella alle porte di Catanzaro, precipitò nel sottostante burrone da un’altezza di 80 metri, provocando la morte di 71 persone. In precedenza, con alcuni articoli sul giornale, avevo denunciato anche la inadeguatezza del tracciato ferroviario e per quanto scritto qualcuno aveva ventilato una denuncia contro di me. La tragedia, purtroppo, mise a tacere ogni tentativo.

Dopo anni di collaborazione giornalistica con “l’Unità”, per esigenze familiari, venni costretto a limitare il mio lavoro dedicandomi solo a Paese Sera, giornale col quale collaborai per circa un anno perchè, purtroppo, dopo, per problemi finanziari, dovette chiudere.

Continuai la mia attività collaborando con “Il Giornale di Calabria”, diretto da Piero Ardenti con una redazione centrale molto guarnita. Basti dire che della stessa facevano parte oltre a Paolo Guzzanti (che in seguito divenne parlamentare di Forza Italia) legato come Ardenti al PSI, anche Francesco Faranda (fratello di Adriana, brigatista nota per la questione Moro) e Tonino Di Rosa (oggi con incarichi direzionali in vari quotidiani nazionali).

C’erano anche, con funzioni di redattori, Pantaleone Sergi (futuro Direttore de “Il Quotidiano”), Santino Trimboli e Pietro Melia, divenuti in seguito redattori della RAI Calabria. “Il Giornale di Calabria”, però, che era legato alle fortune della SIR di Rovelli, chiuse i “battenti” dopo qualche anno.

Ripresi la mia attività con “Il Giornale di Calabria” di Catanzaro diretto da Giuseppe Soluri e vi collaborai per qualche anno fino a quando non ricevetti una richiesta di collaborazione da Pantaleone Sergi, direttore de “il Quotidiano”, un giornale di orientamento progressista, al quale vi collaboravano appunto giornalisti di tendenze di sinistra.

Successivamente, al giornale si operò il cambio della guardia: al posto di Sergi venne nominato Ennio Simeone, già redattore de “l’Unità” e di “Paese Sera”, mio amico da quando lavoravo presso questi quotidiani. Dopo questa esperienza con il “Quotidiano”, eccone un’altra con “il Domani” edito da Guido Talarico e diretto inizialmente da Ugo Bassi ed in una seconda fase dal reggino Domenico Morace.

In seguito lasciai anche la collaborazione con questo giornale continuando, però, la mia attività giornalistica con l’Agenzia ANSA.
Antonio Gigliotti


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