Il lievito madre, ‘a levatina, è da secoli in Calabria un simbolo e un fattore di coesione, generosità e condivisione. Nell’immaginario mediterraneo il lievito, la sostanza magica che gonfia l’impasto del pane, è sempre il dono di un essere soprannaturale, santa, ninfa, madonna o dea, esseri di genere femminile, depositarie di saperi utili agli uomini e al miglioramento delle loro condizioni di vita, individuale e collettiva, simboli della comunicazione sociale, della solidarietà, dell’apertura all’altro.
La pasta madre o lievito madre, fino a non molto tempo fa, era un bene comune che passava di mano in mano per essere utilizzata a turno, e nulla poteva giustificare un’interruzione in questo scambio continuo e sacro.
Una bellissima leggenda calabrese racconta che all’inizio dei tempi si faceva il pane senza lievito. L’unica persona a conoscere il segreto della lievitazione era la Sibilla dell’Aspromonte, che come tutte le Sibille era donna della Sapienza, sacerdotessa e divinatrice, e aveva tra le sue allieve la Madonna bambina.
Si narra che la piccola aveva notato con un po’ d’invidia il pane gonfio e fragrante che usciva dal forno della profetessa, molto più buono di quello basso e secco preparato dalla mamma, Sant’Anna. La bimba aveva notato che la Sibilla aggiungeva qualcosa all’acqua e alla farina e un giorno rubò un pezzo dell’impasto, lo appallottolò e lo nascose sotto un’ascella.
La futura Vergine corse a casa, diede il lievito a sua madre e le insegnò a usarlo come aveva visto fare alla Sibilla. Grazie alla piccola Maria che rivelò i segreti della lievitazione, della conservazione e dello scambio del fermento, tutti gli umani cominciarono così a mangiare del buon pane. Da allora, dice la leggenda, gli umani hanno le ascelle cave.
La Sibilla si arrabbiò molto con Maria non solo per il furto del lievito ma anche perché, essendo in grado di prevedere il futuro, seppe che la bambina sarebbe diventata la Madonna, madre di Gesù.
Diventò cattiva e invidiosa per questo ma Dio la punì, condannandola a vivere per sempre nell’oscurità delle caverne. Ancora adesso, nelle vicinanze del Santuario di Polsi, c’è un luogo roccioso conosciuto come «il castello della Sibilla» e la statua della Madonna, alla fine della processione, viene portata dentro la chiesa velocemente perché non dia troppo a lungo le spalle alla Sibilla.
Annamaria Persico