La farsa di Carnevale, rappresenta anni fa a Sersale (Catanzaro)
16 febbraio 2017
La farsa di Carnevale, rappresenta anni fa a Sersale (Catanzaro)

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Carnevale in Calabria: l’azata, la fharza e lo scammaro


Largu faciti, o nobili signuri
ca fharza si cumincia a recitari!
Pi quantu cosa vecchjia è sempri nova
ca gustu nua tinimu a riprovari!

Le tradizioni del Carnevale in Calabria sono antichissime, discendono direttamente dalle feste Dionisiache magnogreche e dai Saturnali romani e nel tempo, anche con l’avvento del Cristianesimo, non hanno mai perso il significato della rinascita, preceduta necessariamente dal Caos, dalla destabilizzazione, sia pure temporanea, dell’ordine precostituito.

Un festa popolare con rituali ben precisi, di cui ancora rimangono tracce, in cui i ceti sociali si mescolavano e invertivano i ruoli, in cui tutti per una volta l’anno potevano darsi alla dissolutezza, al gioco e allo scherzo dopo di che tutto tornava come prima.

La parola Carnevale come sappiamo viene dal latino carnem levare, ovvero togliere la carne e in Calabria il martedì grasso, il giorno prima del mercoledì delle Ceneri in cui inizia il periodo di astinenza della Quaresima, si chiama anche azata, cioè alzare, togliere la carne, che si festeggiava con grandi mangiate di cibi fritti e a base di carne di maiale di vario genere, innaffiati da vino in quantità.

Era poi tradizione organizzare ‘a fharza, cioè la farsa, una messa in scena per vie e piazze un cui ci sono il grasso Carnalivaru, protagonista indiscusso, moribondo per aver mangiato troppe salsicce e soppressate, la moglie Quaraisima, brutta, vecchia e magra, e poi altre figure come il notaio, il medico, il prete che parlano a favore del povero Carnalivaru esortando di non mangiare da soli perché chi mangia ssulu s’affuca, i ripitanti, le prefiche che in genere erano uomini travestiti da donna. Chiudeva il corteo una folla festante di bambini e adulti.

La gente divertita si affacciava ai balconi, spesso scendeva con fiaschi di vino e salumi e la festa continuava in piena letizia fino al banchetto serale, in cui l’Azata si concludeva mangiando risu d’azata, purpetti e ancora sazizzi e supprissati.

I testi della fharza calabrese, da secoli tramandati oralmente e continuamente riadattati a situazioni e personaggi locali, derivano probabilmente dalle farse cinquecentesche scritte da Pier Antonio Caracciolo che dalla corte aragonese si diffusero nell’allora Regno di Napoli.

I fharzari, cioè donne e uomini travestiti e irriconoscibili, in tutto il periodo di Carnevale solevano anche andare in giro di notte e bussare alle case di parenti e amici. Spesso era la scusa per fare il primo ingresso in casa della futura sposa o del futuro sposo e la visita si risolveva irrimediabilmente con una bella fhilliata, cioè una cena a base di salame, pane e vino.

Finita l’azata si tornava alla vita di tutti i giorni e iniziava il periodo della Quaresima, in cui bisognava comportarsi bene e soprattutto a non cammarare, cioè astenersi dalla carne e dai derivati. Le madri di famiglia controllavano che nessuno toccasse i salumi appesi all’aria di ciramiari, pena paliate e buffittuni e preparavano i cibi dello scammaro, a base di pasta o riso con verdure e a volte uova.

Una curiosità: cammarare è il contrario di scammarare, e i giorni dello scammaro ai tempi del Regno delle Due Sicilie identificavano i giorni della Quaresima e tutti gli altri giorni dell’anno nei quali, per precetto religioso, era obbligatorio mangiare di magro.

Il termine nacque quando alcuni monaci nel periodo di Quaresima furono esentati dalla prescrizione perché ammalati e perciò mangiavano in camera e lo stesso Ippolito Cavalcanti inventò per loro la ricetta dello scammaro, frittata di pasta senza uova.
Nescia tu, sarda salata
ca trasu ia, Pasqua jiuruta,
e rifriscu sa quatrareddra
ccu na bella cuzzupeddra!

Annamaria Persico


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