Staiti (RC), con 260 abitanti è il Comune meno popolato della Calabria
5 aprile 2016
Staiti (RC), con 260 abitanti è il Comune meno popolato della Calabria

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Fusione dei piccoli Comuni, tra necessità e crescita collettiva


Da anni il legislatore impone ai piccoli Comuni di associare i servizi per ridurre le spese, ma offre soluzioni tecniche non sempre valide, che non riescono a migliorare l’efficienza né a far risparmiare denaro pubblico. Molti enti sono dunque impegnati a far quadrare i conti e ad approvare convenzioni per gestire, assieme ai Comuni vicini, determinati uffici e servizi; altri che sembrano più lungimiranti, si lanciano nell’avventura di costituire addirittura un’Unione, ossia un nuovo ente locale che quasi duplica le competenze, senza eliminare quelle proprie di ciascun associato.

E’ un’analisi molto semplice da fare per chi opera negli enti locali e la tesi è comunque supportata da autorevoli pareri, oltre che dalla stessa Corte dei Conti che, di recente, ha evidenziato il fallimento di un’idea di per sé ottima, ma negativa nei risultati concreti.

In Italia su circa 8 mila Comuni, il 72% ha una popolazione inferiore a 5 mila abitanti. Tutte le forze politiche sono d’accordo sulla necessità di una razionalizzazione dell’organizzazione territoriale, anche se c’è comunque chi difende i cosiddetti «comuni-polvere» facendo riferimento, per esempio, alla Francia, dove ne esistono oltre 36 mila a fronte di una popolazione di poco superiore alla nostra. Negli anni il legislatore ha incentivato un processo spontaneo di fusione dei Comuni ma con pochi risultati perché la politica “frena” in nome di un campanilismo ancora molto vivo nei nostri centri.

Lamezia Terme non sarebbe oggi la terza città della Calabria se politici lungimiranti non avessero intuito l’importanza di unire le forze per tentare di gettare le basi di un futuro diverso.
La fusione dei piccoli enti locali, piuttosto che la gestione associata, può essere la soluzione ad una corretta pianificazione dei servizi da erogare in favore di una popolazione che diventa più ampia, ma con un corrispondente aumento di risorse. Difendere a tutti i costi la sopravvivenza dei piccoli Comuni, l’appartenenza al borgo, appare anacronistico oggi che, anche se a fatica, si tenta di costruire un’Europa reale.

Ciò che ai cittadini deve interessare non è tanto la collocazione fisica del Municipio, quanto di poter usufruire di prestazioni migliori.
La politica, come purtroppo spesso accade, è sempre un passo indietro ed invece di cogliere la sfida e rendersi promotrice di seri e radicali processi di aggregazione tra enti, tenta in tutti i modi di glissare la norma e di trovare ogni possibile escamotage per mantenere il proprio feudo, senza nulla condividere con i Comuni vicini, né in termini di esperienze né dal punto di vista operativo. Spesso le associazioni di servizi, comunque obbligatorie, sono solo formali, e non contribuiscono quindi a portare humus nel dibattito in corso sulla necessità di progettare nuove forme di amministrazione del territorio.

Il legislatore nazionale, da parte sua, fino ad ora, non ha avuto la forza né il coraggio d’imporre la fusione dei piccoli enti perché sarebbe una scelta impopolare, osteggiata da moltissimi Sindaci. Il risultato è una situazione di stallo, dove solo alcuni Comuni tentano di associare i servizi, mentre il Parlamento proroga di anno in anno la norma che impone questo genere di gestione.

E’ dal lontano 1990 che la normativa, a piccoli passi, spinge verso forme di aggregazione, incentivandole, ma con scarsi risultati. Da anni giace in Parlamento un disegno di legge che impone la fusione dei piccoli Comuni, ma i partiti, a turno, si defilano e non avviano un vero dibattito, forse perché ciò che preme è solo il consenso elettorale personale e non di rendersi promotore di scelte forti, forse rivoluzionarie, sicuramente volte al risparmio di risorse e di snellimento delle procedure burocratiche.

Se il cittadino è principio e fine dell’azione politica ed amministrativa, occorre un’azione pedagogica che educhi al cambiamento, senza grandi ed inutili melodrammi. La fusione dei piccoli Comuni è un passaggio obbligato per il rilancio di una pubblica amministrazione più snella e se gli eletti non ne colgono l’importanza, allora dovrà essere la popolazione a dimostrare maturità ed a chiedere che nei programmi elettorali sia inserito quanto meno l’avvio di esperienze di condivisione e di solidarietà istituzionale tra enti.

Fondere i piccoli Comuni ha valenza rilevante solo dal punto di vista amministrativo e non incide invece, come forse si teme, sulle tradizioni e le tipicità di un luogo, da tutelare e da preservare a prescindere da ogni scelta. C’è da dire però che oggi ha senso parlare di fusione se esiste la volontà di ricercare ciò che accomuna, piuttosto che evidenziare le piccole-grandi differenze «di paese».

L’integrazione, l’inclusione, l’accoglienza, devono essere concetti fondanti del patrimonio culturale della civiltà contemporanea; certamente sono valori da esternare in ogni manifestazione volta ad ospitare ed aiutare chi viene da lontano, ma prima devono diventare espressioni quotidiana di vita vissuta con il vicino di casa, con chi abita a pochi metri o chilometri da noi, anche se formalmente residente in un altro Comune.
Sono i confini mentali, prima che fisici, a dover essere ridisegnati con una matita rossa. La matita rossa dell’Amore, che è poi il valore fondamentale di ogni azione positiva.
Donatella Villella


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