Sanremo 2022, Michele Bravi e l'omaggio a Drusilla - Video
4 febbraio 2022

BLOG-le firme di Reportage

GIUDIZI UNIVERSALI. «IL SANREMO SECONDO AMADEUS- ATTO III: day 2 plus 3» di Gianlorenzo Franzì


Solo un giorno fa ci si stupiva che nel Sanremo Secondo Amadeus Atto III (da qui in poi, SSAA3) non ci fosse stato neanche un gossip o una polemica degna di questo nome -se si escludeva il bailamme creato dai cantanti under 50 novax… ma è proprio un’altra storia.

Detto, fatto: quello che sembrava solo un’ombra sulla conduzione del pur simpatica Amadeo Umberto rota Sebastiani, ovvero la pallida e diciamolo pleonastica presenza di Ornella Muti, è stata solo la prima parte di quella che si è rivelata la più grande défaillance dell’evento. Evento che peraltro, nonostante le critiche che anche qui abbiamo mosso, si è risollevato almeno su una delle tre enorme criticità trovate.

Andiamo con ordine.

E invertiamo l’ordine degli addendi (tanto il risultato non cambia) del nostro resoconto del Day One, partendo subito dalle canzoni: per uno strano scherzo del destino, le prime 12 della prima serata -si dice, estratte sempre a sorteggio- si sono rivelate le peggiori. Non che quest’anno ci sia stata chissà quale quantità di buona musica, ma come si dice, in urbe caecorum…. Un pastiche di nomi ed età artistiche variegato a partire dal ritorno in grandissimo stile di Rettore, che accompagnata da Ditonellapiaga -il nom de plume più bello insieme a La Rappresentante di Lista- ha portato in gara Chimica, quasi sicuramente il brano più veloce come bpm dell’intera storia del Festival, uno dei più orecchiabili. Chimica è un elettropop vintage e moderno insieme, grazie all’estro di Donatella, che smette i panni della chanteuse matura ed elegante delle sue ultime prove sanremesi, ovvero Di Notte Specialmente e Amore Stella, splendido brano che però portò controvoglia e che oggi pare odiare. Tutte e due spudorate senza inutili ammiccamenti, provocatorie con due frasi veloci mentre mostrano che non serve rifarsi sempre alla religione cattolica (chi ha detto Achille Lauro?) per sembrare moderni, cadendo nella trappola del conformismo degli anticonformisti a comando.

C’è poi Elisa, che dopo vent’anni esatti torna sul palco e porta un altro gioiello dopo Luce (Tramonti a Nord Est), O Forse Sei Tu, un brano che al primo ascolto potrebbe far storcere il naso ma che subito dopo si sedimenta e lascia intravedere screziature straordinarie. Con un inciso melodico che non ha niente di immediato, ma che si inerpica su note dal gusto straniante anche e soprattutto grazie alla voce e all’interpretazione dell’artista. Elisa sa fare brani semplici e classici senza mai sembrare fuori tempo, sa proporre canzoni e melodie simmetricamente costruite alla perfezione ma sembrando incredibilmente naturale. Ottimo anche Giovanni Truppi, anche se un po’ viene il sospetto che quello non sia il suo palco: Tuo padre, Mia Madre, Lucia è un pezzo incredibile, che utilizza lo spoken per inquadrare un pezzo di vita di coppia straordinario nella sua dolorosa ordinarietà: lui è in canottiera, sprezzante del buon gusto e probabilmente inconsapevole che la sciatteria non è quasi mai figa, ma quando si cantano con delicatezza e naturalezza versi come “lo so che per quello che vogliamo fare noi un per cento è amore, tutto il resto è stringere i denti (…) Amore mio, per vivere facciamo mille cose stupide, lo sai che per sopravvivere semplifichiamo il più possibile, ma cosa c’è di semplice?” si perdona tutto.

Buone anche Le Vibrazioni (Tantissimo), tamarre ma con impatto; e buona anche Emma, che porta un pezzo (Ogni Volta E’ Così) per lei ottimo e finalmente lontano dalle accozzaglie di urli a cui aveva abituato, anche se svanito l’effetto sorpresa resta poco. Peccato per la direzione d’orchestra (?) di Francesca Michielin, che sta davanti ai musicisti ma è chiaro da come si muove che in cuffia ascolta altro.

E per un Massimo Ranieri che stona, c’è un’Iva Zanicchi che sale sul palco emozionata e se ne frega di essere nel 2022: canta Voglio amarti come se l’avesse presentata Nunzio Filogamo, ma ha una voce hardcore e chi se ne frega.

Vorremmo parlare ancora male di Achille Lauro ma già L’Osservatore Romano l’ha liquidato in maniera splendida, e allora concentriamoci su Fabrizio Moro che porta l’inascoltabile Sei Tu, ancora la stessa cosa riuscendo a farla sembrare ancora più uguale alle sue altre brutture, che al confronto è meglio Sei Tu di Syria; su Irama, giovanissimo che sta facendo passi da gigante nell’interpretazione e nell’uso della voce, ma che forse era meglio se restava intrappolato in albergo come lo scorso anno; su Gianni Morandi che per carità, è simpatico, è bravo, è lodevole nella suo saper essere intelligentemente demodè, ma Apri Tutte Le Porte sfigurava anche cantata dal suo autore Lorenzo Jovanotti.

Per una parte musicale che nella seconda serata alza il livello, ecco invece che il discorso sul ritmo della scaletta cambia. Fermo restando che, pur comprendendo l logiche degli sponsor e l’imposizione sulla durata, è disumano far durare una gara canore cinque ore (sic): neanche Checco Zalone salva un’edizione che resta come bloccata e ingessata, nonostante gli sforzi di Amadeus di slacciare i colletti e far respirare. E a proposito: Checco Zalone.

Che in sole tre uscite (la seconda è la migliore) fa incazzare la comunità lgbtq+ con una canzone che in realtà è alleato, prende in giro l’impegno inclusivo di buona parte dei suoi colleghi cantanti politicamente schierati, e porta sul palco un corovirus sbeffeggiando la pandemia e i virologi.

Certo, il pezzo sulla favola queer calabrese è chiaramente un autoplagio da I Uomini Sessuali, ma è talmente stratificata nel significato che viene incompreso persino da chi dovrebbe sentirsene rafforzato.

C’è poi il rapper Ragadi con il suo Poco Ricco che è l’istantanea, anzi lo specchio illuminato, di questi tempi miserabili e mitomani; e la chiusa, dopo il coro dei virologi à là Queen e Bohemian Rapsody, è dedicata ad Angela anche se con qualche rimostranza perché “senza cachet aggiuntivo”. Insomma, inconsapevolmente o meno, Checco Zalone riesce a fotografare l’Italia come pochi altri comici sanno fare, in maniera così intelligente e profonda da non riuscire ad essere capito da tutti. Ma mica è un difetto.

Arrivando così alle dolenti note.

Lorena Cesarini è bella, è brava, è emozionata al punto giusto da restituire spontaneità e splendore post adolescenziale. È emozionante quando legge i tweet che la parte peggiore del paese le ha dedicato, ed è istruttiva quando prende alcuni brani del libro di Tahar Ben Jelloun Il Razzismo Spiegato a Mio Figlio.

Ma tutto quello che le sta intorno, serve? Anzi, tutto quello che le sta intorno è giusto?

Non c’è troppa retorica nello spiegare il razzismo come è stato fatto, in qualche modo dribblando quello che davvero doveva essere detto? Perché non farle ammettere che si, era lì (anche) perché è nera e occorre avere la quota black per far capire alle teste dure che è giusto e normale, sottolineandolo con forza?

Dopo la Muti, un altro autogol insomma.

E poi c’è Drusilla Foer.

Diciamolo subito: il prossimo anno, un organizzatore accorto e intelligente darebbe a lei la conduzione di Sanremo lasciando ad Amedeo solo la selezione dei brani e magari tenerlo pure sul palco, a leggere foglietti e annunciare le canzoni. Ma Drusilla potrebbe e dovrebbe stare al centro, portando su di sé il peso di un baraccone mastodontico rendendolo leggero con la sua arguzia leggiadra, la sua forza trasparente, il suo mezzo sorriso di Schrodinger, che potrebbe cioè essere sia di gioia che di pianto contemporaneamente.

Perfetta, insomma. O perfetto?

Ecco il punto.

Perché se Drusilla è Tootsie, come sembra essere, si capovolge tutto il senso, o quasi.

Per avere una donna intelligente, colta, bella, brava, simpatica, eccentrica, sofisticata, comica, sul palco di Sanremo era proprio necessario portarci un uomo che impersona una donna per mestiere e necessità? Dov’è la bordata transgender? Dov’è il progresso?

Ma se Drusilla non è Tootsie, bensì Gianluca Gori, perché viene tenuto nascosto? Perché si parla di eterosessualità e non di omosessualità? Dov’è la bordata transgender? Dov’è il progesso?

A latere.

Il tanto discusso siparietto tra Drusilla e l’Aquila di Ligonchio è stata una gaffe di Iva: una gaffe amichevole, perché la Zanicchi, resasi conto subito del misunderstanding che poteva creare la sua battuta innocente, si è ripresa balbettando malamente vocaboli ripresi dalla Foer. Perché ha avuto immediatamente paura, perchè anche se hai 100 anni e una carriera illustre alle spalle, se sgarri di un millimetro, se usi una parola invece che un’altra, se sei troppo leggero/a, se hai una sensibilità diversa e magari vecchio stile, ebbene all’improvviso e senza colpo ferire una valanga di merda ti sommergerà.

È questo che siamo diventati? Giudice, giuria, boia? Abbiamo perso a tal punto la leggerezza, la consapevolezza, siamo a tal punto scollati dalla realtà da accettare la deriva inquisitoria dei social?

Così, troveremo il nemico sempre dovunque e in chiunque.

E i prossimi potremmo essere noi.

 

 

 


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