L’arte della tessitura in Calabria ha origini antichissime e il telaio, suo principale strumento e simbolo dell’operosità e della pazienza femminile, era presente fino a non molto tempo fa in molte case.
Utilizzato fin dai tempi della Magna Grecia e certamente molto diffuso nella regione già nel IX secolo, era grande e in legno di faggio, posizionato in genere nel piano terra della casa o, più spesso, in camera da letto, e svolgeva funzione aggregativa in quanto intorno ad esso si riunivano le donne, sia giovani che anziane, per produrre le famose sete calabresi e altri tessuti di uso domestico in lana, cotone, lino, canapa e ginestra.
La tessitura è un’arte così antica in Calabria che troviamo le figure delle tessitrici negli antichi racconti popolari calabresi sotto forma di Fate, i personaggi leggendari che discendono direttamente dalle Ninfe della mitologia greca e il cui nome deriva dall’altro nome latino della Parche, Fatae, cioè coloro che presiedono al fato (dal latino fatum, destino), spesso raffigurate a tessere il filo della vita degli esseri umani. Curiosamente, ritroviamo questi esseri più o meno con le stesse caratteristiche nelle leggende celtiche e di alcuni paesi del nord Europa.
Le Fate comunque nell’immaginario collettivo, in Calabria come altrove, erano creature magiche ed eteree, bellissime ed eternamente giovani, spesso raffigurate con le ali, benevole e protettrici verso gli umani ma visibili solo ai puri. Vivevano nelle grotte vicino a corsi d’acqua e uscivano solo di notte per raccogliere fiori e miele di cui si cibavano e per tessere misteriosi e delicatissimi tessuti ad un telaio, posto in un luogo consacrato, di cui gli umani sentivano solo il rumore.
Questa leggenda è presente in molti paesi della Calabria come Lamezia Terme, Platania, Cetraro, Guardia Piemontese, Jonadi, Petilia Policastro. La più conosciuta è quella delle Fate di Colle dei fiori, nei pressi di San Giovanni in Fiore, narrata anche da Saverio Basile.
Pare che sul Colle, in mezzo a un bosco di pioppi, ci fosse un enorme macigno squadrato, detto pietra di Pizzi, grande quanto una casa, da dove uscivano strani rumori. Secondo i racconti popolari i rumori erano prodotti dalle fate industriose che all’interno della pietra lavoravano al telaio.
Ma come facevano a tessere al buio? Semplice, i pioppi come si sa hanno le foglie d’oro, brillanti come luminarie ed erano lì apposta per far luce magicamente alle fate. Si narra che nei giorni quieti e senza vento, a poggiare l’orecchio sulla pietra, si possa ancora sentire il tranquillo rumore della navetta del telaio e il bisbiglio delle fate che chiacchierano tra loro.
E alle Fate, spiriti benevoli della natura che da sempre accompagnano e guidano la vita degli uomini e delle donne, anche il grande poeta calabrese Felice Mastroianni dedicò una bellissima poesia Mi cantano le fate del mio monte, il monte Reventino nei pressi di Lamezia Terme.
Annamaria Persico