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31 maggio 2017

News Lamezia e lametino

La Tredicina di Sant’Antonio ‘u scazune: il culto del Santo a Lamezia Terme


Giugno è il mese di Sant’Antonio. Per tredici giorni di seguito ancora oggi è un via vai verso il Santuario di Sant’Antonio da Padova: du gijju, per via del giglio che tiene in mano; detto anche ‘u scazune perché in effige è scalzo.

E’ la «Tredicina», contrassegnata da processioni continue di uomini e di donne, da invocazioni, confessioni e comunioni, da scioglimento di voti in precedenza promessi e dalla invocazione di grazie dietro promessa di altri voti…

I salmi intonati di continuo dai frati e da bizzoche fungono da contrappunto musicale. Per il mondo popolare questi aspetti ne accompagnavano altri poco religiosi e molto laici, in verità.

Specialmente con ‘a nuttata da passare in preghiera sotto la statua del santo.

Durante gli anni di guerra l’aspetto liturgico aveva sopravanzato ogni altro. Erano le donne anziane a jiri (andare) alle Tredicine.

Le giovani, specie se sposate e con marito lontano, era meglio che restassero a casa anziché andare al Santuario e tornare tardi la sera e temere qualche malintenzionato e dare motivo a dicerie.

Le Tredicine, infatti, per i laici non sempre erano solamente occasione di preghiera. I giovani, in particolare, posteggiavano lungo i marciapiedi delle strade che portano al Santuario a occhieggiare le ragazze, nella speranza di individuarne qualcuna che «potesse starci» con il proposito di corteggiarla.

Anche le ragazze – specie quelle in età di marito – lanciavano occhiate furtivamente verso i marciapiedi nella speranza di incrociare gli sguardi dell’innamorato o quelli di qualche altro che potesse sembrare un buon partito.

Così, ragazzi e ragazze, si mettevano in mostra.

A guerra finita, la Tredicina tornò ad assumere il carattere di sempre. Non solo di partecipazione ai riti serali in onore del Santo, ma anche di… passerella, di sfilata di ragazze e di donne sposate.

Seguiva, programmaticamente, ‘a nuttata.

‘A nuttata talvolta, forniva una occasione per incontri trepidanti ‘nta ‘u vuascu ‘i sant’Antoni o almeno al suo imbocco, di lato della chiesa: parole, carezze, baci veloci, frettolosi, strappati tra desiderio e trepidazione.

Per queste scappatelle «peccaminose» di solito si cercava la compagnia di una amica compiacente, che forniva così ad entrambe un alibi, all’occorrenza: cummari e cummarelli.

Qualche volta succedeva che anche una donna maritata incappasse in simili sotterfugi, nella speranza di soddisfare nell’ombra scura di un anfratto del bosco, qualche arretrata voglia.

Queste circostanze, note ma taciute, accompagnavano con sospetto la nuttata della Tredicina e difficilmente una ragazza riusciva a strappare il permesso ai suoi di fare a “ nuttata ” che veniva concesso solamente quando si sapeva che essa era ben affidata e strettamente sorvegliata.

Il permesso era negato non solo perché in Chiesa la gran ressa favoriva la vicinanza dei corpi e contatti non propriamente casuali. Del resto, il piggia piggia non era sempre involontario e una donna poteva anche sentirsi strusciata all’improvviso da dietro da un estraneo.

Talvolta sentirsi anche accarezzare da mani imbucate inaspettatamente e furtivamente tra lo scialle e sopra la camicetta.

Qualche uomo non si limitava a fare la mano morta, ma audacemente infilava la mano malandrina sotto il grembiule, tra le gambe, tentando di raggiungere le cosce, sia pure protette dalle calze, che trasalivano al primo contatto. Salvo poi, ma raramente, permettere alla mano di andare oltre, fino a sfiorare la carne viva che fremeva al tatto lasciandosi esplorare.

Non fino ai punti veramente «sacri» comunque, per quanto più possibile inviolabili.

Simili evenienze potevano far liberare, anche in Chiesa, un qualche soffocato accento di godimento che si sperava potesse essere scambiato per uno strascico di preghiera.

Era proprio nella speranza di simili… «infortuni» che alcune ragazze volevano «fare la nottata»: occasione per sentire vicino, nella ressa, il proprio ragazzo, corpo attaccato al corpo, sia pure fugacemente.

E poteva anche essere l’occasione, prendendo a scusa la necessità di una boccata d’aria o di «dover fare un goccio d’acqua», a infilare la via d’ ‘u vuascu ‘i Sant’Antoni.

L’incredibile affollamento e la gran ressa davanti al sagrato offriva poi una verosimile scusa all’inevitabile ritardo. Sono nati così, tuttavia, anche alcuni matrimoni.

Con le feste tornarono i cavallucci di provola, i mostaccioli, la giurgiulena e lo zucchero filato. E i bomboloni, una leccornia dolce, grossa più di una caramella, che un uomo in giacchettina bianca preparava con abilità su un banco di marmo.

Così era e in parte ancora è la festa di Sant’Antonio, con la «nottata», le bancarelle, il mercatino snodato lungo le strade più frequentate, le «sfilate delle ragazze».
Anche se, oramai, esse non aspettano proprio la Tredicina e ‘a nuttata e fanno petting e altro, senza curarsi di guardoni curiosi e di vicini pettegoli.

Sui balconi e alle finestre tornarono le effigi del Santo incorniciato dalle lampadine votive che si aggiungevano una per sera, fino a raggiungere il numero di tredici per il giorno della festa.

Tornò l’addobbo del Corso di nuovo sfavillante di luminarie, finito l’oscuramento; tornò la folla strabocchevole con tanta voglia, ora più di prima, di ritrovarsi, di stare insieme, di fare nuovamente il giro delle bancarelle ancorchè scarse di merci ma già preannuncianti la normalità.

E il tredici giugno, gran festa: la consegna del cero votivo da parte del Sindaco per rinnovargli la devozione di tutta la città, e la benedizione del bue infiocchettato, per ringraziarlo del buon raccolto e per auspicarne un altro abbondante.

Poi la gran processione: ore e ore per le vie della Città salmodiando e qualcuno tra la folla a osannare: Viva Sant’Antonio du gijjiu.

Altrettanto importante era la scelta della banda musicale che doveva corrispondere positivamente alle aspettative e superare il giudizio di chi ascoltava.

Soprattutto quello degli «esperti intenditori» del «Giugno Nicastrese», supercritici e attaccati alle tradizioni, comunque ritenuti competenti, bene informati e attenti anche a che la banda avesse una buona tromba e un bombardino per gli attesi a-solo, tratti da opere note. E buoni commensali per immancabile cene a fine concerto cui spesso seguivano romantiche serenate.

La festa finiva con tredici botti finali come da tradizione, e i fuochi di artificio che dovevano destare impressione con i loro mille e mille colori ben combinati, tra frugole e scintille, prima del botto conclusivo che doveva essere secco e potente, tale da scuotere i vetri delle case.

E la festa finiva veramente, rinviando all’anno a venire che chissà come sarebbe stata.

Prima si snodava per le strade e per i vicoli dell’abitato la interminabile processione che nel passato usciva anche dalla città e raggiungeva nuclei abitati sparsi nelle campagne, a benedire e a raccogliere l’obolo per il Santo.

Nell’occasione, ad ogni sosta, bicchieri colmi di vino passavano di mano in mano accompagnati da fette di soppressata per rifocillare i portantini che talvolta tornavano a casa provvisti di qualche tocco di salciccia o di una mezza soppressata.

Aspetto non propriamente religioso, pagano in verità, che il Vescovo Giambro proibì sfidando monaci e fedeli. Poi la festa finiva veramente e si portava via la «Tredicina e la nuttata».

Cominciavano però i preparativi per la festa dei santi Pietro e Paolo, i veri Patroni della città, tali fino a quando la maggiore importanza della festa di Sant’Antonio non li spodestò, per così dire.

Fino a quando, in particolare, Sant’Antonio fu proclamato Patrono con un Diploma del Re Carlo di Borbone, nel 1746. Nominato con comprotettore, in verità, insieme a San Tommaso d’Aquino.

Nessuno lo ricorda. Del resto, questo Santo, per quanto «Diplomato», non ha mai goduto di grande seguito e di riti particolari in città.

Tuttavia la festa di questi due Santi era occasione per mostrare sparse sui marciapiedi ricche derrate e si contraddistingueva caparbiamente per il commercio di bestiame – asini muli, cavalli, mucche e tori – tra una folla di mercanti cui si aggiungeva un buon numero di zingari e di Bazzarioti vocianti impegnati a decantare il proprio animale, a strappare un buon prezzo e, potendo, a infilare un qualche imbroglio dei quali la convinzione popolare li riteneva esperti.

Festa di «campagnoli», insomma rispetto all’altra che era dei commercianti, degli artigiani e degli impiegati: dei «cittadini», insomma. Con la fiera dei Santi Pietro e Paolo, giugno si concludeva lasciando ricordi, rimpianti, e desideri.

E la speranza di incontrare fortunosamente il ragazzo o la ragazza oggetto di attenzioni e di sguardi di intesa durante i giorni della Tredicina. E riprendere magari, a distanze più ravvicinate, schermaglie amorose tra i chioschi del mercato vecchio, sotto il corso Numistrano, allora ancora esistenti.

Tutto finito, chiuso.

Rinviato all’anno a venire.

Nel frattempo seguivano le gite al mare: nuovi incontri tra le onde spumose, tra la sabbia della riva, all’ombra compiacente di una ciambra.
Vittorino Fittante


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