Ippolita Luzzo consegna il premio Nautilus.Litweb a Salvatore Conaci
1 novembre 2020
Ippolita Luzzo consegna il premio Nautilus.Litweb a Salvatore Conaci

Reportage, libri e dintorni

«ODIO I TRENI» di Salvatore Conaci – Racconto finalista Premio Letterario Nautilus-Premio Speciale Litweb


Odio i treni.
Non mi sono mai piaciuti, e credo proprio che quest’avversione non passerà mai. Sedere in un carrozzone di lamiere, in uno spazio scarso quanto il buongusto di chi ne ha coordinato l’arredamento. Chi, sano di mente, amerebbe una cosa del genere? Mi pare di sentirli, i saccentelli: L’aereo non è forse la stessa cosa? Questa domanda del cazzo è la madre di tutte le cernite. Paragonare l’aereo col treno… so subito dove collocarti: tra gl’idioti! Non cogli la differenza tra cielo e terra? Per dirla con Guccini, sei un maiale da ghiande. Lasciatemi le ali!

Oggi è una di quelle giornate storte. Una delle tante, a dire il vero, in un periodo che non potrebbe essere raddrizzato neanche con le presse idrauliche. Ecco, diciamo che oggi è il coronamento dell’incubo: sono su un treno. Non ci sarei mai salito, se non fossi stato davvero costretto. Era una di quelle cose prendi-o-lasci, una di quelle situazioni che non ti lasciano scelta. Quantomeno, non una soddisfacente. Ma è una storia lunga. La questione che mi preme davvero sfogare è il disagio di trovarmi qui, a dondolare in una cuccetta doppia in cui spero di rimanere da solo fino alla destinazione. Fuori dai finestrini, il sole si scioglie lentamente nel mare. I suoi atomi di luce si disperdono tremuli nell’acqua, in uno spettacolo colossale e miserabile. È così che passa la gloria del mondo? Ma certo che sì! Un attimo prima stai sorgendo; quello dopo ti sciogli in un mare di rabbia e malinconia, al tramonto delle tue forze. Su un treno.

Non ho ancora sistemato la mia roba. La poca roba che sono stato in grado di arraffare. Decido che non voglio più che stia lì, spalmata a terra come roba qualunque, come roba di nessuno. Voglio adagiarla sulla poltrona al finestrino. Non mi alzo. Posso raggiungere il trolley anche dal mio divanetto. Mi chino il più possibile, incasso la testa nelle spalle, e stendo le dita fino alla maniglia del bagaglio. Piegato su me stesso, col fiato spezzato e il viso sul punto di esplodere, sento dei passi veloci provenire dal corridoio. Non muovo un muscolo, resto in attesa col volto giù quasi fino al pavimento. I passi tirano dritto. Mi alzo col trolley tra le mani, ma penso che effettivamente non mi va di poggiarlo sulla poltrona. Non sarebbe signorile. Non sarebbe da me. Neanche un’ora, e questo schifo di treno mi sta già corrompendo. Mi sorprendo in una smorfia amara. Oltre il vetro della porta, sento che i passi si sono fermati alla cuccetta successiva. Da lì arriva una voce da fallito frustrato: «Buonasera, i biglietti?».
Mi ha saltato. Infilo il trolley sotto il mio divano-letto e provo a decontrarre i muscoli. Il treno ha uno scossone improvviso. Un frastuono mi manda in corto circuito l’amigdala. La luce rossiccia del tramonto viene fagocitata da un buio totalizzante, un buio assordante. Le orecchie schioccano. Provo a ripararle deglutendo e muovendo la mandibola. Le gallerie sono una delle cose che odio maggiormente dei treni. Le orecchie non si ripristinano finché non ne siamo fuori abbondantemente.

Attraversiamo un paese che cade a pezzi. Da qui, da questo mio punto di vista sfuggente e superficiale, sembra abbandonato a sé stesso, in una tragica e nervosa immobilità. Un’immobilità straziante, dalla quale non c’è via di scampo. Siamo così simili, questo paese e io…
Quando parti, va sempre così: il mondo, che avevi catalogato come una particella estranea, si rivela sangue tuo, lì ad aspettarti per un motivo ben preciso, immagino. Sì, perché c’è sempre una ferita sanguinante dietro ogni partenza. A volte, partire fa sanguinare; a volte, nasconde il sangue. Nel cammino, i luoghi che senti parte di te ti danno una forza tutta nuova. La spinta per continuare per la strada con una tacca di entusiasmo sufficiente a non cedere. Anche quando ti trovi su un maledetto treno.
L’ultimo rudere del paese abbandonato mi è appena passato sotto gli occhi come un proiettile, quando sul vetro mi appare il riflesso di qualcosa di molto simile al volto di un bambino. Caschetto biondo, guance paffute, sguardo torvo. Mi giro di scatto. Sono solo. Sospiro a lungo, stendo le gambe e mi calo pesantemente sullo schienale. Ho bisogno di rilassarmi. Non è facile, in una cuccetta che puzza di polvere e vecchio piscio assorbito, ma è l’unica cosa che somigli a una soluzione gratuita dei miei problemi. E una soluzione devo trovarla per forza: le allucinazioni non sono mai buon segno. Mai, neanche in situazioni come la mia. Mi do una controllata alla tasca dei jeans: lo smartphone è al suo posto. È l’ultima cosa che controllo quando voglio chiudere un po’ gli occhi su un treno. Da chi viaggia in aereo non mi aspetto carognate, ma in questa ferraglia maledetta incontro sempre e solo facce di cui non mi fido. Infilo la mano sotto la giacca, in direzione della tasca interna. La fiaschetta piena è sempre una consolazione immediata. Solida, pesante e colma di promesse. La sfilo. Fuori è quasi buio, ma lei luccica gloriosa sotto i neon di questo abitacolo angusto. Mando giù un paio di sorsi. Grappa fatta in casa. L’ho prodotta in quantità industriali per una vita. L’ho prodotta fino all’ultimo, fino a qualche tempo prima che le cose, le mie bellissime cose, precipitassero senza avviso in un mare di merda. Il liquido mi scende in gola prima che io possa pensare che non lo ricordavo così potente. Mi brucia la lingua, il velo palatino e la gola. Ma ci mette davvero poco a scaldarmi il cuore. In un instante diventa profumata, morbida. È accogliente e rassicurante, come l’abbraccio di una madre. Chissà cosa penserebbe, la mia, se mi vedesse in questo momento: in corsa nel mondo, senza quasi più nulla, come un cane bastardo. Il distillato mi arriva in testa giusto in tempo per farmi realizzare che in effetti non è andata malissimo a lei. Si è goduta i miei anni migliori, e se n’è andata poco prima di vedermi scivolare in questo casino. Il grande disegno celeste le ha risparmiato il mio spettacolo pietoso.
Conservo la fiaschetta nella giacca a occhi chiusi. Non ho intenzione di dormire, non posso permettermelo. Voglio solo ritagliarmi un istante di dolce nulla. Il mondo che corre ai lati del vagone sta aggiungendo ansia all’ansia. Non voglio arrivare a destinazione coi nervi lussati. Chiudo gli occhi, e mi sembra di avvertire svolazzi d’aria quasi impercettibili. Stringo i denti rabbiosamente mentre cerco di ignorare il presentimento fino all’ultimo. Proprio adesso?, penso. Proprio ora che credevo che fosse fatta, che nessuno sarebbe venuto a fracassare la mia quiete? Riapro, e per un attimo non credo a ciò che vedo. Sulla porta semiaperta della cuccetta, il bambino visto poco prima mi fissa con aria pensosa. Avrà al massimo otto anni. Mi scruta col capo leggermente inclinato. Sembra voglia capirmi, tradurmi, risolvermi. Sembra un minuscolo professore universitario, vestito com’è di lana e velluto, una lavagnetta sotto l’ascella. Mi rendo conto che, osservandolo, sto trattenendo il fiato. Non avevo chiuso la porta dall’interno? Non ricordo. Non ricordo quasi più nulla, ultimamente. Per un attimo, mi tornano in mente le parole di una persona che, invece, vorrei cancellare per sempre dall’inventario: dimentichi solo quello che ti fa comodo! Chiudo gli occhi, scuoto la testa. Questo funziona per allontanare i ricordi spiacevoli, ma non cancella il fottuto bambino sulla porta della mia cuccetta. Dannati bambini, rendono tutto così complicato. Un adulto lo allontani, e se s’impegna troppo nell’antichissima arte della rottura di coglioni puoi addirittura pensare a metodi più convincenti. Ma come si fa coi bambini? Il mio arrugginito e pacato istinto di padre mi viene in soccorso da chissà dove: «E tu chi saresti? Sì, insomma, cosa… cosa ci fai qui, ragazzo?»
Lui non si scompone. Sbatte le palpebre, poi mi risponde con calma: «Posso entrare?».
Ha una voce morbida, timida, dal tono educato. Ma mi lascia comunque perplesso: «Come? Perché vorresti entrare?»
Il bimbo ostenta una calma che gli invidio ferocemente. «Devo assolutamente entrare. La mia mamma sta per scoprire un danno che ho fatto di là. Se mi prende, sono guai. Vorrei aspettare qui che le passi, se non le dispiace.»
Vorrei rispondergli di no, che deve prendersi le sue responsabilità e andare dalla sua mamma furibonda, ché un paio di ceffoni gli faranno male oggi ma saranno oro colato domani. Vorrei, davvero, ma io sono la persona meno indicata per questo genere di lezioncine del cavolo. E poi sono quasi ammaliato dal linguaggio del bambino. Chi era un altro che parlava così bene, a questa età? Uno lo conoscevo, dico davvero! «Avanti, entra. E chiudi bene la porta. Usa quella leva lì, guarda. Bravo!».
Le nere scarpe scintillanti del bambino mi accecano quasi. Maledette luci al neon friggi-occhi! Lui è calmo, invece. Imperturbabile e serafico. Continua a ricordarmi qualcuno, anche nel mondo in cui si mette a sedere sul divano dirimpetto. «Non ci conosciamo, vero, figliolo?»
Lui si è già perso nella sua lavagna. La fissa rapito. A certo punto, con comodo, mi risponde stringendosi nelle spalle.
«Cosa leggi su quella lavagna?»
Lui alza immediatamente lo sguardo. Mi degna solo con gli occhi, la testa rimane china. Gira la lastra nera verso di me, poi la ruota nuovamente verso sé.
«Guardi una lavagna vuota?»
Mi dà una risposta muta, ancora una volta. Si limita a fare spallucce e torna a guardare il nulla, facendo dondolare i piedi giù dal suo sedile.
Il buio, là fuori, lascia il posto a una miriade di luci variegate. Giallastre, arancioni, blu intermittenti, diafane. A questa velocità, mi disgustano quasi. Il bambino solleva con urgenza la testa, e si lascia ipnotizzare da quel gioco immondo di bagliori sgraziati. Stiamo attraversando un altro paese infelice, e lui pare non voglia perdersene neanche un pezzetto. Guardo la porta di sfuggita. Come mi giustificherei, se sua madre passasse da qui per cercarlo, e lo trovasse con me? Un bambino da solo con un estraneo, in una sudicia cuccetta chiusa dall’interno. Sono cose nelle quali solo io posso cacciarmi.
Trascorriamo delle ore in silenzio. Lui ipnotizzato dal suo schermo nero; io passando in rassegna la strada, il percorso, la mia anima dannata. «Dove va, lei?», mi alla fine, chiede senza preavviso.
Ho una fitta al cuore, pensando alla meta. «Oh, io sto andando a trovare mio figlio. Si trova in un’altra nazione. Infatti, quando arriveremo al confine, dovrò cambiare treno.»
Il bambino mi guarda perplesso, inclina la testa: «Va in un’altra nazione con un bagaglio così piccolo?»
Mi viene da sorridere. «Diciamo che mi è mancato il tempo.»
Cerco di decifrare la sua reazione. Annuisce e torna a guardare la lavagna, dondolando le sue scarpette lucide che a intervalli regolari emettono bagliori abbacinanti.
Il treno viene scosso nuovamente. Il fracasso della galleria è ancora più insopportabile, questa volta. Staremo viaggiando al doppio della velocità. Lui lascia cadere la lavagna sulle gambe, e si porta i palmi alle orecchie, gli occhi sempre inespressivi. «Odio questo rumore.», dice con tono piatto. Non sembra spaventato né infastidito, in realtà. Il suo mi pare quasi un atteggiamento di forma. Una maniera. Lo trovo curioso. Potrei addirittura dire che questo bamboccio mi sta simpatico.
«I tuoi genitori ti lasciano dire la parola con la o, figliolo?», gli chiedo.
«Mia madre non vuole che la dica.»
«E tuo padre?»
Lui mi rivolge ancora quel suo sguardo in tralice. Ha gli occhietti scuri e penetranti. Accavallo le gambe e incrocio le braccia. Avrò indagato troppo? Chi se ne fotte! È stato lui a venire da me. Accettasse ciò che ho da dire o sloggiasse! Ho già i miei problemi, io.
Alla fine, però, mi risponde. Ammiro questa sua gestione consapevole del tempo. È snervante, ma l’ammiro. Se solo fossi anche io così riflessivo! Forse, un tempo lo sono stato. Forse da bambino ero proprio così: sicuro di me e riflessivo. Ma cosa posso saperne? Da adulti, l’infanzia è solo un film raccontato fuori dalla sala. Restano le sensazioni, ma chi ha mai visto le scene? La risposta del bambino è un’altra scrollata di spalle.
«Vuoi dire che non hai il papà?»
Lui annuisce. «Non l’ho mai conosciuto.»
Questa sue parole mi spezzano il fiato. Mi toccano più di quanto vorrei, dannazione. Cambiare discorso. Cambiare immediatamente discorso. «E dimmi un po’, come ti chiami? Non ci siamo neanche presentati.», dico.
Per la prima volta, il bimbo cambia espressione. Mi punta addosso occhi come lampade da interrogatorio, e sorride enigmatico. Non lascia trasparire alcuna emozione specifica. «Io non ho un nome, altrimenti gliel’avrei già detto. Mia madre dice che sono un angelo. Un angelo delle cose andate, aggiungo sempre io. E lei come si chiama?»
Già, colpa mia. Mi aspettavo una risposta logica da un bambino così particolare? Lo vedo già da grande: serioso, colto e ambiguo. Uno di quei tipi che hanno la loro teoria e il loro inusuale eppure logico punto di vista su ogni cosa. Diventerà un uomo di quelli che non danno certezze, ma dispensano dubbi e ricchezza immateriale. E l’ho beccato io. Su un treno. Un angelo delle cose andate, dannazione. Inspiro a fondo. «Facciamo che io ti chiamo Angelo. Ok?»
Angelo si stringe nelle spalle, ancora. E torna a guardare la sua lavagna vuota, ancora.
«Io, comunque, mi chiamo Patrizio.», soggiungo.
«È un bel nome. Che lavoro fa, signor Patrizio?»
Imprevedibile, ancora una volta. Questa domanda mi fa venire voglia di parlare. Inizio a pensare che il piccolo Angelo sia una benedizione: mi distrae; non mi fa pensare a dove mi trovo, né a tutto il resto. «Be’, io sono… ero un investigatore privato. Sai di cosa parlo?»
«Certo.»
No, non è affatto normale sapere cosa sia un investigatore privato, alla sua età. E potete starne certi, il suo sguardo non lascia spazio a dubbi: sa davvero cosa sia un maledetto investigatore privato. «Perché era? Non le piace più?», aggiunge poi.
Benedetti bambini! «Sì, mi piace ancora!», gli rispondo, «Pensa, io avevo studiato altro all’università: avevo studiato letteratura. Lo scelsi, questo lavoro intendo, proprio per passione! Mi piaceva aiutare la gente.»
Angelo solleva ancora gli occhietti verso me. «Aiutare la gente è bello. Alcuni, però, non se lo meritano, secondo me.»
Ha ragione. Il mio lavoro è ingiusto. Non sei un uomo di legge né un criminale. Sei solo un pezzo di merda con la pistola, una patacca nel portafogli e qualche marchingegno per inchiodare la gente. Finisci spesso per aiutare dei bastardi figli di puttana, rovinando la vita a poveracci che hanno pisciato una volta fuori dal vaso.
Sento in qualche modo il bisogno di giustificarmi: «Sai Angelo, io ho sempre cercato di essere giusto. Anzi, in realtà le ingiustizie le ho subite io.»
L’espressione del bambino s’incupisce all’improvviso. Raddrizza la schiena, e aggrotta le sopracciglia. «Ha incontrato delle persone cattive? Persone cattive con cui lei si era comportato bene?»
Questo bambino non finisce di stupirmi. Le sue capacità cognitive fanno quasi paura. Ciò che dice, invece, tende a fare male, a punzecchiare le parti molli dei miei sentimenti, e a solleticare qualcosa che oserei definire la mia coscienza. Inizio a starci male. Forse, è giunto il momento di cercare la madre di questo marmocchio. Levarmelo dai piedi mi consentirà di tornare a dirigere il mio odio verso qualcosa che non sia me. Verso i fottuti treni, per esempio. Sto per fare leva sulle ginocchia quando lui mi inchioda al divanetto: «Cosa le hanno fatto queste persone cattive?»
Resto a sedere. Risponderò. Perché tacere? È giusto che si sappia cosa mi hanno fatto le persone cattive. Una domanda inaspettata, quella di Angelo. Quasi scioccante. Però, inutile negarlo, mi apre gli occhi su quanto tempo fa sia iniziato davvero tutto. Perché, sì, nella foga che ha preceduto la partenza, non ci ho pensato. Non ho pensato a niente, nella foga che ha preceduto la partenza. Ho spento il cervello; anzi, ho lasciato che si spegnesse. Non dovremmo mai permettere al cervello di spegnersi. Ma tant’è. L’angelo delle cose perdute, qui, è Angelo, non io. Dovrebbe essere lui l’esperto di queste cose.
«Bene Angelo, qualche settimana fa, mi contatta Lorella, la moglie di Davide, il mio migliore amico. Mi segui?», gli dico, tentando di andare dritto al punto. Lui annuisce, e io proseguo, girandomi al finestrino: «Davide. Insieme fin dall’asilo. Pensa, oggi ho cinquantacinque anni. Un fratello. Comunque, Lorella, sua moglie mi contatta per darmi l’incarico di seguirlo. Non è mai a casa, mi dice, ed è cambiato. Teme che possa avere un’altra donna. Capisci, Angelo? Le capisci queste cose?»
«Sì, tradimenti».
Figurati. Non mi sorprendo più di nulla. Alla fine della corsa, stringerò la mano a sua madre e le farò i complimenti per l’inquietante figlio prodigio. Ammesso che questo bambino sia vero. Ammesso che non sia davvero un angelo. Sto perdendo la testa. Sto perdendo la testa? Al diavolo! Entriamo in un’altra galleria. Angelo lascia cadere ancora la lavagnetta, mani alle orecchie. Questa volta, sulla lastra nera, c’è del gesso: il piccolo ha scritto Davide, sicuramente mentre guardavo il finestrino. Quando il fracasso finisce, gli chiedo spiegazioni.
Lui risponde senza pensarci troppo: «Ho come l’impressione che Davide sia una persona cattiva, signor Patrizio. Qui scrivo i nomi di chi è stato cattivo con lei. Farò in modo che paghino. Ci sta?»
Mi passo una mano sul volto. Sto sudando. Non so cosa rispondere. Non so neanche se mi trovi davvero su questo treno. Che non sia morto prima ancora di imbarcarmi? Non ci capisco più niente. Ma mi sta bene così.
«Ci sto! Hai ragione: Davide sta tra i cattivi, e sai perché? Perché Lorella era sinceramente disperata; mi ha convinto a seguirlo davvero. Ci è voluto un po’, ma alla fine, oggi, l’ho beccato. Aveva davvero un’altra donna. E sai chi era l’altra donna, Angelo? Irene, mia moglie!».
Angelo tende le orecchie e si affretta a scrivere. «Irene!», esclama, «Aggiunta anche lei! Pagherà!»
Mi vengono i brividi. La storia non è finita, e al solo pensiero le budella mi si annodano, maledizione. Ho quasi paura di continuare, ma sento che le cose andate sono andate, e che quindi non c’è altra strada se non quella di parlare. Sento che, per l’ennesima, fottutissima volta, oggi non ho scelta.
«E sai cosa, Angelo? Ho anche una figlia, Annalisa. Quando, qualche ora fa, le ho raccontato l’accaduto, lei ha avuto il coraggio di aggredirmi! Ha inveito contro di me come se fossi il peggiore dei criminali. Io, capisci?! Mia moglie, il mio migliore amico e mia figlia! Tre pugnalate, Angelo! Sono state solo questo: tre pugnalate! Puoi capirmi, immagino.»
Angelo è concentrato sulla lavagna; scrive con la lingua tra le labbra. «Annalisa! Pagherà anche lei, signor Patrizio. Pagherà, vedrà!».
Lo guardo per un po’. Quanto sarebbe più spensierata e terribile, la vita, se Angelo fosse davvero il mio angelo vendicatore? Le sue scarpette mi abbagliano. Distolgo lo sguardo. Al di là del finestrino, riconosco una precisa zona industriale. Siamo praticamente arrivati. A breve, dovrò cambiare treno. Sento vibrare lo smartphone. Lo estraggo dalla tasca. È il giornale della mia città.
Tre persone assassinate. Si tratterebbe di Davide ***, Irene *** e Annalisa ***. Circostanze da chiarire, secondo gl’inquirenti, ma le indagini hanno già una direzione precisa, ossia…
Chiudo bruscamente, l’articolo stava prendendo una piega che fatico ad accettare. Metto il cellulare in tasca. Siamo in stazione. Il treno si ferma completamente. Vedo degli uomini accalcarsi attorno al vagone. Uomini in divisa. Mi stropiccio gli occhi, mi stiracchio.
«Angelo, vecchio mio, a quanto pare ci siamo, eh?», dico.
Ma quando mi giro verso il divano dirimpetto Angelo non c’è. Mi guardo intorno: nessun segno di lui. Porta chiusa dall’interno e trolley ben nascosto. Tutto al suo posto. Nel corridoio appaiono gli uomini in divisa. Uno guarda nella mia cuccetta, mi indica ai suoi colleghi, e carica una vigorosa spallata.
Odio i treni.
Salvatore Conaci

MOTIVAZIONE SALVATORE CONACI – ODIO I TRENI (Premio Litweb): Un racconto insieme classico nella struttura e nello stile pur lasciando nel lettore quella sorpresa che si aspetta o forse non la aspetta temendola. La bravura dell’autore sta tutta nello spazio dell’attesa, ed è l’attesa di sapere il senso del Primo Premio Litweb assegnato a Odio i treni.

Salvatore Conaci è uno scrittore e insegnante calabrese.
Nasce a Catanzaro, nel 1990.
Esordisce nel 2015, con “Perle nere” (Montedit), una raccolta di novelle dell’orrore. Dopo una breve collaborazione con la rivista Luoghi Misteriosi, scrive per ‘900Letterario tra il 2016 e il 2017.
Del 2018 è “Ordo Mortis” (WritersEditor), primo thriller esoterico mai ambientato in Calabria, che ottiene la menzione al merito al III Premio Internazionale Cumani Quasimodo, e diviene Best Seller Amazon a pochi giorni dalla pubblicazione, ottenendo successivamente lo stesso successo nelle classifiche IBS.
È atteso per aprile 2021, per la casa editrice Bookabook, il suo prossimo romanzo: “Cosa accadde davvero a Evie Benson”.


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