Con il suo clamore e gli effetti di luce, sottolinea ‘Le Monde’, la fan-zone “porta un po’ di febbre per i mondiali anche nella periferia di Doha, solitamente squallida e trascurata. Labirinto di fabbriche, officine, magazzini e dormitori per gli operai; parcheggio per ruspe, autocisterne e muletti… la zona industriale, popolata esclusivamente da uomini, è la sala macchine del Qatar. Il luogo che nessuno vede, ma di cui tutti beneficiano: invisibile ed essenziale”.
Una zona industriale “sporca di sabbia e polvere quando il resto della città trasuda una pulizia maniacale. Costruita orizzontalmente in un paese che si vanta dei suoi grattacieli, la zona industriale è il negativo di West Bay, il quartiere degli affari con le torri modernissime; è il risvolto negativo della vista scintillante contenuta nei video promozionali della Coppa del Mondo”, scrive il quotidiano. “È uno degli organi vitali di Doha, ma è un organo malato”, spiega al giornale Mustafa Qadri, direttore dell’Ong Equidem, specializzata nella difesa dei diritti dei lavoratori.
Nel lungo articolo ‘Le Monde’ racconta di Narayan e Dadhiram, due nepalesi intorno ai quarant’anni. “Dipendenti di una compagnia di taxi, vengono pagati il salario minimo del Qatar, 1.000 rial (265 euro), ai quali si aggiungono 300 rial per gli straordinari e altri 300 rial per il cibo. O 1.600 rial mensili per dodici ore di lavoro al giorno”. Alla nostra età, spiega Narayan, “è davvero poco”. “Con tutti i tifosi in città, gli affari per l’azienda andranno bene. Abbiamo chiesto un aumento, ma non abbiamo ricevuto risposta. I soldi della Coppa del Mondo, a parte le mance, non ne vedremo il colore”.
Come per la maggioranza di questi lavoratori, Narayan e Dadhiram inviano la maggior parte della loro paga alle loro famiglie. Per Dadhiram serve per pagare gli studi di infermiera alla figlia, che sogna di guadagnarsi da vivere in Australia. “La capisco. Il Qatar – spiega – ha i suoi lati positivi, è un paese perfettamente sicuro. Ma le persone come noi non hanno futuro lì. Anche dopo trent’anni di lavoro qui, non avrò la nazionalità del Qatar. Nel momento in cui smetti di lavorare, torni a casa. Mentre in Australia, è possibile naturalizzare un immigrato”.
Quella zona, racconta ‘Le Monde, è nata negli anni ’80, con l’inizio dell’industrializzazione del Qatar. Dalla fine degli anni ’90, con l’inizio delle esportazioni di gas naturale, Doha si è modernizzata a un ritmo frenetico ma la zona industriale non ha mantenuto il passo. “Per ospitare la forza lavoro immigrata, il cui numero sta esplodendo, il governo consente lo sviluppo, ai margini di fabbriche e magazzini, di alloggi informali, simili ai piccoli slum. La zona industriale diventa il lato oscuro della capitale del Qatar, la stiva malsana di un transatlantico sempre più lussuoso”.
Per rispondere alla critiche delle Ong e dopo aver vinto nel 2010 l’organizzazione del Mondiale il Qatar ha avviato la costruzione di campi di lavoro più presentabili. Tra questi c’è Labor City, inaugurato nel 2015 e situato nel prolungamento della zona industriale: “costituita da edifici a tre piani, con un design standardizzato, è in grado di accogliere 70 mila persone, il posto si presenta come un immenso complesso di alloggi popolari. Gli operai dormono in camere abbastanza pulite di quattro persone, con una superficie di circa 20 metri quadrati, dove sono vietati i letti a castello. Il sito ospita due stazioni di polizia e la seconda moschea più grande del Paese. Nelle vicinanze sono emerse alcune strutture per il tempo libero, come un cinema e uno stadio di cricket. I residenti di Labor City sono generalmente dipendenti di società multinazionali attente alla reputazione”.
Ma nonostante gli sforzi del governo, rileva ‘Le Monde’, “un’intera parte della zona industriale rimane in uno stato di sottosviluppo anarchico, del tipo ‘giungla’. La situazione si addice alle piccole imprese subappaltatrici, che non possono permettersi di ospitare il proprio personale in campi di migliore qualità, pur consentendo alle autorità di esonerarsi da ogni responsabilità. “Questo status informale è un modo per mantenere i lavoratori in uno stato di vulnerabilità, che li rende facilmente sfruttabili”, denuncia Mustafa Qadri.