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16 dicembre 2015

News

Quasi 1,8 milioni le famiglie che versano in una condizione di disagio abitativo


Negli ultimi mesi si sono susseguite nelle maggiori aree urbane del Paese manifestazioni di disagio sociale che hanno avuto nell’occupazione di immobili dismessi o inutilizzati il principale tratto caratterizzante.

«A ben guardare si tratta molto spesso di episodi che hanno nella dimensione abitativa solo l’elemento più eclatante e visibile di un problema di carattere più ampio e generale», sottolinea Luca Dondi direttore generale di Nomisma.

Senza indulgenze nei confronti di iniziative quasi sempre illegali e non di rado violente, non si può non rilevare come le reiterate occupazioni rendano visibile un fenomeno che, nonostante dimensioni straordinariamente rilevanti, viene troppo spesso sottaciuto, oltre che interamente delegato ad un interventismo locale affannoso e privo di strumenti adeguati.

Sono, infatti, quasi 1,8 milioni, secondo i primi dati di uno studio che Nomisma sta realizzando per Federcasa, le famiglie in locazione che, versando oggi in una condizione di disagio abitativo (incidenza del canone sul reddito familiare superiore al 30%), corrono un concreto rischio di scivolamento verso forme di morosità e di possibile marginalizzazione sociale.

«Si tratta perlopiù di cittadini italiani (circa il 65%), distribuiti sul territorio nazionale in maniera più omogenea rispetto a quanto le recenti manifestazioni spingerebbero a far pensare. Se non vi sono dubbi che il fenomeno risulti più accentuato nei grandi centri, dall’analisi non sembrano emergere zone franche, con una diffusione che interessa anche capoluoghi di medie dimensioni e centri minori. In tale quadro, la dotazione di edilizia residenziale pubblica si conferma del tutto insufficiente, consentendo di salvaguardare appena 700 mila nuclei familiari, vale a dire poco più di un terzo di quelli che attualmente versano in una situazione problematica», continua Dondi.

A fronte della vastità del problema, le risposte pubbliche sono state fino qui complessivamente inadeguate. Il piano di recupero e ristrutturazione degli immobili ERP inutilizzati e fatiscenti è una risposta di entità irrisoria, soprattutto se associata al sacrificio (perlopiù a valori modesti) di una parte del patrimonio sull’altare di un’inconciliabile efficienza economica delle aziende casa deputate alla gestione. Non può bastare neppure la continua invocazione al concorso privato attraverso il sistema dei fondi immobiliari e all’intervento dalla Cassa Depositi e Prestiti.

In più, un’impronosticabile accelerazione del piano di edilizia residenziale sociale garantirebbe un sollievo solo ad una quota minoritaria (la cosiddetta fascia grigia) delle famiglie che versano oggi in condizioni di difficoltà (630 mila beneficiarie a fronte delle quasi 1.800 mila in disagio). Infine, non è sufficiente l’alleggerimento fiscale (sia sul reddito sia sulla proprietà) riconosciuto ai proprietari di abitazioni concesse in locazione a canone “concordato”, soprattutto laddove gli accordi territoriali che disciplinano tale opzione sono talmente obsoleti da renderla di fatto inutilizzabile.

«Una risposta seria, convincente e necessariamente pubblica al tema del disagio abitativo dovrebbe rappresentare un obiettivo ineludibile di un’azione di governo effettivamente riformatrice. A ciò si aggiunga che, a conti fatti, le ricadute in termini di attivazione economica di un ipotetico piano casa potrebbero rivelarsi meno deboli e labili di quelle destinate a scaturire dagli sgravi fiscali sull’abitazione principale di cui beneficeranno i proprietari a partire dall’anno prossimo. Ma se l’eventuale gap in fatto di crescita può essere tema di discussione, la differenza in termini di equità delle due opzioni è di tutta evidenza», conclude Dondi.


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