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18 novembre 2017

News

Salari da fame in Ungheria, Ucraina e Serbia nelle fabbriche che producono abbigliamento e calzature «Made in Europe»


Un nuovo rapporto della Clean Clothes Campaign, «Europe’s Sweatshops», documenta i salari da fame endemici e le dure condizioni di lavoro nell’industria tessile e calzaturiera dell’Est e Sud-Est Europa.

Ad esempio, molti lavoratori in Ucraina, nonostante gli straordinari, guadagnano appena 89 euro al mese in un Paese in cui il salario dignitoso dovrebbe essere almeno 5 volte tanto.

Tra i clienti di queste fabbriche ci sono marchi globali come Benetton, Esprit, GEOX, Triumph e Vera Moda.

Per questi marchi i Paesi dell’Est e Sud-Est Europa rappresentano paradisi per i bassi salari. Molti brand enfatizzano l’appartenenza al «Made in Europe», suggerendo con questo concetto «condizioni di lavoro eque».

In realtà, molti dei 1,7 milioni di lavoratori e lavoratrici di queste regioni vivono in povertà, affrontano condizioni di lavoro pericolose, tra cui straordinari forzati, e si trovano in una situazione di indebitamento significativo.

Queste fabbriche di sfruttamento offrono lavoratori economici, anche se qualificati e professionali. Troppo spesso i salari mensili della maggior parte della forza lavoro femminile raggiungono appena la soglia del salario minimo legale, che varia dagli 89 euro in Ucraina ai 374 euro in Slovacchia.

Ma il salario dignitoso, quello che permetterebbe a una famiglia di provvedere ai bisogni primari, dovrebbe essere quattro o cinque volte superiore e in Ucraina, ad esempio, questo vorrebbe dire guadagnare almeno 438 euro al mese.

I salari minimi legali in questi Paesi sono attualmente al di sotto delle loro rispettive soglie di povertà e dei livelli di sussistenza. Le conseguenze sono terribili.

«A volte semplicemente non abbiamo niente da mangiare», ha raccontato una lavoratrice ucraina.

»I nostri salari bastano appena per pagare le bollette elettriche, dell’acqua e dei riscaldamenti», ha detto un’altra donna ungherese.

Le interviste a 110 lavoratrici e lavoratori di fabbriche di abbigliamento e calzature in Ungheria, Ucraina e Serbia hanno rivelato che molti di loro sono costretti ad effettuare straordinari per raggiungere i loro obiettivi di produzione. Ma nonostante questo, difficilmente riescono a guadagnare qualcosa in più del salario minimo.

Molti degli intervistati hanno raccontato di condizioni di lavoro pericolose come l’esposizione al calore o a sostanze chimiche tossiche, condizioni antigieniche, straordinari forzati illegali e non pagati e abusi da parte dei dirigenti.

I lavoratori intervistati si sentono intimiditi e sotto costante minaccia di licenziamento o trasferimento.

Quando i lavoratori serbi chiedono perché durante la calda estate non c’è aria condizionata, perché l’accesso all’acqua potabile è limitato, perché sono costretti a lavorare di nuovo il sabato, la risposta è sempre la stessa: «Quella è la porta».

«Ci pare evidente che i marchi internazionali stiano approfittando in maniera sostanziosa di un sistema foraggiato da bassi salari e importanti incentivi governativi», dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della Clean Clothes Campaign.

«In Serbia, ad esempio, oltre ad ingenti sovvenzioni», prosegue Lucchetti «le imprese estere ricevono aiuti indiretti come esenzione fiscale fino a per dieci anni, terreni a titolo quasi gratuito, infrastrutture e servizi. E nelle zone franche sono pure esentate dal pagamento delle utenze mentre i lavoratori fanno fatica a pagare le bollette della luce e dell’acqua, in continuo vertiginoso aumento».

Le fabbriche citate nel rapporto producono tutte per importanti marchi globali: tra questi troviamo Benetton, Esprit, GEOX, Triumph e Vera Moda.

La Campagna Abiti Puliti chiede ai marchi coinvolti di adeguare i salari corrisposti al livello dignitoso e di lavorare insieme ai loro fornitori per eliminare le condizioni di lavoro disumane e illegali documentate in questo rapporto.
(http://www.abitipuliti.org/report/2017-report-europes-sweatshop-leuropa-dello-sfruttamento/)


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