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3 dicembre 2020

Reportage, libri e dintorni

«UN RITORNO» di Giuseppe Gallo – Racconto finalista Premio Letterario Nautilus


Don Fabio sollevò l’aspersorio sulla piccola bara bianca e, muto, abbracciò i genitori uno per uno. Neanche lui sapeva più consolare. Jerry, sei anni, occhi chiari come la nonna materna, un cespuglietto di sorrisi, era stato inghiottito dai gorghi del Limmat, il fiume di Dietikon, alle porte di Zurigo, inseguendo un pallone di gomma.
-Pòvaru cotraru! Era distinu!-sentenziò donna Vrìcita.

Mastr’Angilu, cugino della madre, martirizzato dalla fatica, vaneggiava ancora nella traversata della Penisola. Ora, “alli Cruci”, accoglieva stanco le condoglianze dei paesani che gli passavano di fronte. Mani callose o irrigidite dall’artrosi. Era andato via nell’86 e non era più tornato. Ebbe un sussulto solo quando il suo torpore fu interrotto da una serie di colpi di tosse. Alzò il mento e se lo ritrovò in faccia. Cicciu, non solo gli strinse la mano, ma lo baciò pure! Con quella barba crespa e rossiccia, non lo aveva riconosciuto; furono gli occhi, quasi acqua, a riportarlo alla loro giovinezza.

-Condoglianzi!
-Grazie!
-Come va?
-Bene! Si non fusse pe’ sta tusse.
-E la hfamigghja?
-No nc’è male! E tu?
-Nui puru buoni!
Cicciu si accorse che molti di quelli che gli stavano intorno lo fissavano guardinghi. Doveva proseguire. Le nuvole si aggrumavano sulle colline di Corda. Poi il buio balzò addosso alle case come un felino. Quando incupì anche la marina, la Venova rimase in una notte senza stiddhi.
Mastr’Angilu volle dormire nella casa di famiglia. Alla ruga di Avantigrassu. Con i franchi svizzeri l’aveva ristrutturata. Ora, abbandonata a se stessa, cedeva di nuovo all’umidità. Accese le luci. Ad ogni lampo scomparivano le ombre e ritornavano i fantasmi. La madre gracile, le rughe sulle guance e un porro peloso sotto l’orecchio destro. Il padre magro e segaligno. Quando parlavano era per litigare e maledire l’esistenza. Angelo, a 13 anni, dopo la quarta, diventò discepolo di mastru Lorienzu, carrijandu cace e ‘mpastandu gimentu. In meno di sei mesi si conquistò le vesciche alle sulle mani; le piaghe sulle spalle e un destino senza via di uscita. Poi cominciò a impomatarsi, a indossare i pantaloni lunghi e a rientrare dopo il tramonto. A 18 anni era mastr’Angilu. Pronto a giocare a braccio di ferro con la vita. Sul balcone di fronte Laura, il petto rigonfio, affondava la pettinissa nei capelli. Una, due, tre volte; socchiudendo gli occhi. L’estate inaridiva dentro le frescure di settembre. Angelo passava e ripassava come una rondine inquieta. Poi si fermava all’angolo. Laura riappariva, improvvisa, come una colomba, e gli sguardi, le attese e i desideri diventarono parole.
-O ma’, vuogghju mu mi hfazzu zzitu.
-E con chi?
-Cu Làgura!
-Va bene. Ti piace? Devo dirlo a tuo padre.
-Mi piace, sì! Diglielo!
-Laura? Fidanzarti con Laura? È bella, non dico di no, ma la devi tenere d’occhio. Si dice ca duna cumpidenza a troppi giovanotti.
Cicciarieddhu, nci lu disse nta la ‘mpigna, a crudu. Mastr’Angilu pensava che così doveva parlargli l’amico, ma sentì il cuore lacerarsi. Quando si accorse che non era l’unico a cui Laura rispondeva con gli occhi, dalla sera alla mattina, scese alla stazione di Sant’Eufemia, si accodò ai riggitani e sparì dalla circolazione. Cinque mesi e Cicciu e Laura erano fidanzati in casa. Dopo un anno marito e moglie. Ninu lattuca glielo disse sul tram, ad Altstetten. Mastr’Angilu parlava già tedesco, aveva il suo appartamento, la patente svizzera, ma sopravviveva con il cuore pistatu nta lu mortaru. Inghiottiva amaro, continuando a sghignazzare sulle donne finché non si arrese. Sposò Barbara e arrivarono Gabriella e Luciano che lo riconciliarono con tutto.
Al risveglio Mastr’Angilu si sentì come svuotato. Sciacquò il viso senza sapone, lisciando i capelli con le dita. La cucina era sporca, la scala impolverata. Gli angoli infestati dai ragni. Si avvicinò alla finestra. Diede uno strappo e l’aprì. Il sole era alto. Dirimpetto, il muro in ombra della comare Giosina, con i fili di acciaio a mezz’aria per stendere le lenzuola. In Svizzera c’erano già le asciugatrici. I vasi crepati. Alzò lo sguardo verso il mare. Si intravedeva ancora, ma dovette sollevarsi sulla punta dei piedi. Altre tegole avevano sostituito il fogliame della vite. Gli venne voglia di gridare, di chiamare Pietru, Smeraddu, Pepè; qualcuno l’aveva rivisto a Zurigo, ma gli altri? Ognuno aveva imboccato il proprio sentiero. Anche lui aveva dovuto piegare la schiena nel cementificio di Schlieren. Ricucirsi il volto sfregiato, annichilirsi nell’ironia, fingendo di ridere, mentre chi lo guardava gli faceva intendere che lui, mastr’Angilu, fetìa come lu casu pecurinu, E quello, Cicciu, sotto gli occhi di tutti, l’aveva abbracciato e baciato! Scese in strada. Riudì i lagni delle pecore che scendevano a Campuluongu. Vecchio e nuovo gemevano sotto il medesimo destino! Spiò dall’alto Lu Bivieri per sentirne lo scroscio. Nulla. Solo due colombi cazzijavanu sul bordo limaccioso della vasca.

-Marì, arrivau lu cuginu!
Maria scapuzzau dalla cucina, alta; i capelli sulla nuca.
-Come stai?
-Bene, grazie! E voi?
-Tiramu avanti, chi bbue… cca è la solita vita, lavori, mangi, t’addormienti e non sai si ti rivigghj.
-Puru alla Svizzera è accussì!
-Ma vui vi divertiti, siti libbari. Pecurinu o parmiggianu?
-Ma chi parmiggianu e parmiggianu! Lu pecorinu nci vo’!- e Marco gli allungò la ciotola.
-Mi pàrica tuornu cotraru, Bucatini e carne de crapa!
-Non c’è sulu chistu, cugì!- lo interruppe Marco -Qui non siamo in Svizzera dove ognuno si nasconde nel proprio appartamento.. Qui viviamo tutti insieme!
-Ma se non c’è più nessuno!
-Nessuno? Ormai simu quantu Majìda; n’atri dui o tri anni e superamu puru Curnga.
-Possibile? Ho fatto tutta la salita e non ho visto un cane!
-Scusa, eh! Ma io dicevo un’altra cosa, che non ha niente a che fare con chi c’è o chi non c’è, ma con chi ti è amico e chi non lo è; con chi ti ha offeso e funestato…
-Non capisco.
-Come non capisci? L’abbiamo visto tutti ieri, al funerale, che Cicciarieddhu ti pigghjau pe’ cunnu n’atra vota e si la ridia sutti li baffi. Lu cornutu ebbe lu coraggiu puru mu ti vasa, a ttia! Chi avivi mu lu scrapienti cuomu n’agnieddhu.
Angelo arrossì, si sentì preso a ceffoni. Masticau amaru.
-Dassa stare, cugì! Pe’ mmia è acqua passata, storia vecchja…
-Storia vecchja, sì, ma brucia ancora… lu sangu è sangu! Sai come li chiamiamo, qui, quelli come te? “Pitti musci”, “mienzi uomini” e non dicu atru, non voglio offenderti.
Ma l’aveva già offeso! Mastr’Angilu si sentì ferito brutalmente. Dietro il legame di sangue dei parenti aveva percepito solo riserve; dietro gli sguardi dei paesani un rimprovero continuo. E tutti, rivedendolo al bar o per strada, elargivano pareri e commenti, poco lusinghieri.
-Cu’ nescìu conigghju, sulu erva po’ mangiare- mungarijava Pasquale, lu labbrutu.
Marco prese la bottiglia e riempì i bicchieri. Il vino alla luce del sole riverberava.
Cuomu lu sangu, -pensò mastr’Angilu- cuomu lu sangu!
Nel pomeriggio dello stesso giorno, mastr’Angilu, con la 126 rossa del cugino partì in direzione di Nicastro. Dopo il cimitero, però, allu quatru di San Francesco, deviò a sinistra, ‘ncafunandusi nel pendio. Sugli argini i rovi soffocavano gli ulivi ancora in piedi. Nella spianata, con il sole che tramontava a sinistra, mastr’Angilu si fece più guardingo. Parcheggiò la 126 dietro il sentiero. Accostò la portiera, piano. Un merlo nero esplose il suo gorgheggio. Puntò verso la macchia dei cacombarari. Gli era parso di udire, oltre il recinto, un gracidio di rane. Erano grugniti di maiali. Aprì il fogliame e vide la costruzione in blocchi, gli spiazzi cementati e le lamiere della porcilaia. Notò i tubi dell’acqua, i cumuli di liquame e i sacchi di mangime sotto le tettoie, poi rabbrividì. Laura, in pantaloni e maglioncino, i capelli lucidi e vellutati come i gusci delle castagne, lanciava manciate di granturco alle galline che accorrevano turbolente intorno alle sue gambe. Laura! Mastr’Angilu fece un passo indietro e si infossò nel cespuglio senza levarle gli occhi di dosso. Laura avvertì un rumorio insolito tra le frasche e guardò in quella direzione. Scostò i capelli dalla fronte, tese gli occhi verso il recinto e scomparve dietro le lamiere.
Mastr’Angilu risalì in auto e, dopo l’Amato, girò a destra, entrando nel parcheggio dei Due Mari. Si unì alla folle anonima e si tenne lontano dalle cellule fotoelettriche.
-Vorrei fave, piselli… locali
-Locali? Ma che dice? Non esistono più.
-Va bene, va bene! Mi dia quello che ha!
Il commesso, per nulla convinto, poggiò sul bancone un sacchetto di fave e uno di piselli.
-Comunque, è fuori stagione, specie per le fave.
-Mi li mangiaru li picciuni e li suriciorva…
-Li suriciorva?
-Le talpe! Anzi mi dia anche un chilo di topicida.
-E quante talpe avete? Un esercito! Volete fare una strage?
Mastr’Angilu cominciava a inquietarsi, troppe domande e troppe precisazioni rischiavano di essere non solo inopportune, ma anche pericolose.

-Crepau!- nci disse Micu Marinaru, battendogli la mano sulla spalla, congratulandosi soddisfatto. -Nta la mmerda de li puorci, cuomu si meritava.
-Ma di chi parli? Cu’ crepau?- gli chiese mastr’Angilu appoggiandosi al bancone.
-Cicciu, l’amicu tuo! Laura l’ha trovato nella vasca dei liquami chi natava cuomu na buffa.
-E come lo sai?
-L’hanno detto al telegiornale. C’è scritto sul giornale. Lo sanno tutti… e tu non lo sapevi?
-Io? E come facevo a saperlo!
Lu piparu, Micu e gli altri cinque o sei stoccafissi che giocavano a scopa lo fissavano con un’aria subdola e allusiva. Da una parte dovevano credere alle sue parole, dall’altra erano certi che lui sapesse quanto era accaduto, prima di loro e di tutti gli altri.
‘Ndria distribuì altre birre mentre il cervello di mastr’Angilu pigghjava fuocu come na carvunera.
-Vi salutu! Devo andare. Ci vediamo domani.
-Magari allu funerale!- aggiunse Micarieddhu.
Anche stavolta mastr’Angilu dovette abbozzare mezzo sorriso di connivenza. All’aria aperta non sapeva più che direzione prendere. Tornare a casa, attraverso le rughe meno frequentate o passeggiando lungo il corso, salutando a destra e a sinistra? Cicciu era morto stecchito. Doveva prenderne atto. Quel viso secco con la barbetta ispida e rossiccia e quegli occhi chiari che aveva stramaledetto per anni in terra straniera, adesso, in quelle ore, erano al buio. Per sempre. Ddio, quant’è strana la morte! A volte è così lontana che non hai modo neanche di pensarci; altre volte, è così vicina che se ci pensi la vedi che ti cammina accanto, che è la stessa tua ombra.
Ora i cugini Marco e Micu, lu zziu Carmelu e tutta la parentela, potevano riprendere fiato. “La pitta muscia” aveva reagito da uomo. Entrò nel corso a testa alta. Impettito. Il sole gli illuminava la strada fiammeggiando sui tetti e sui vetri delle finestre. Superò la banca e il tabacchino. Aveva adocchiato in tutto una decina di persone, ma non se l’era cacato nessuno. Proprio nessuno.

Il capitano Benestante sbirciò perplesso la missiva anonima.
-Il signor Azzarito? Prego, può salire.
E mastr’Angelo salì, pesante. Ogni gradino un mese di galera. Capelli folti e castani. Il capitano, facendolo accomodare, glieli invidiò.
-Allora, signor Azzarito, come mai in paese? A quanto leggo dalla scheda lei è emigrato- e faceva finta di scrutare la scheda stampata di qualche ricercato. Usava il trucco della scheda per far capire a chi interrogava che tutti erano sotto controllo, che non potevano sgarrare. Altrimenti c’era la scheda!
-Per il funerale di Jerry, sono cugino della madre.
-Solo per questo?
-Che volete dire?
-Che i funerali adesso sono due, c’è anche quello del signor Canestraro che a quanto pare, e gli sventolò la scheda sul viso, lei conosceva molto bene.
-Da ragazzi lavoravamo insieme.
-Amici fidati?
-Da giovani si è sempre amici fidati. Da grandi poi si cambia. Lo sa meglio di me…
-No! Signor Azzarito, io non so niente! È lei che deve sapere .Che c’entra lei con l’omicidio?
Mastr’Angilu arrossì. Gli occhi neri inviperirono.
-Omicidio? Quale omicidio? E di chi?
-Come di chi? Del suo amico…
-È stata una disgrazia, che c’entro io?
-C’entra! C’entra! È vero che bonanima ha sposato la sua fidanzata?
-Certo! Perché io ho deciso di andarmene. Qui per mille lire bisognava caricare cace e gimentu cuomu li ciucci e lui ha approfittato della mia assenza.
-E questo l’ha ferito. Si è sentito raggirato, tradito; sono meridionale pure io, so cosa significa per un calabrese tutto questo. Vendetta! Prima o poi! Giusto? Ha aspettato, ma alla fine ha fatto come il topo con la noce, vero?
Ncisse lu sùrice alla nuce
Dammi tiempu ca ti pierciu!
-No! Si sbaglia. Nente sùrici! Per me vale un altro proverbio:
Acqua passata
no macina mulinu!
-E no, signor Azzarito. L’acqua per lei non è proprio passata. Anzi, è andato anche a trovarla l’acqua, a tuffarvisi dentro! Legga qui!- e gli ficcò sotto il naso il foglio anonimo- Legga! Legga!
Mastr’Angelo lesse. A fatica, nervoso.
ai carabineri
guardati ca lomicida e mastrangilu azzaritu
chi tornau de la sguizzera mu lammazza
tutti sanu ca scindiu alli puarci la sira de lu 19
-Ora mi dica. Che devo pensare io di fronte a queste accuse? Che è andato a fare la sera del 19 al porcile?
-Non l’immagina?
-Non l’immagino, no! Me lo spieghi!
-Pe’ nostalgia! C’era la possibilità di vederla, dopo trent’anni…
Al comandante sembrò che stesse per sciogliersi.
-Mi racconti com’è andata…
E mastr’Angelo gli spiegò, per filo e per segno, che aveva chiesto la 126 rossa a suo cugino con la scusa di rivedere Nicastro. Che era sceso al porcile, che s’era avvicinato alla recinzione, che l’aveva intravista..
-E vi siete parlati?
-Ma no! Che dice? L’ho guardata mentre civava le galline…
-E poi?
-E poi niente! L’ho vista e m’è bastato! Ho capito che il tempo è come na hfjumara in piena, che si trascina tutto via e quando cede non si pigghja pista cchjù de nente…
-Non ho capito, mi traduce?
-In italiano?
-Me lo vuole dire in tedesco?
-Volevo dire che la piena è ormai passata e quello che conta per me è solo la famiglia.
Il capitano lo misurava sottecchi.
-Riassumiamo. Lei confessa, quindi, che la sera del 19, si è recato al porcile del signor Canestraro per vedere la signora Laura.
-Se vuole glielo ripeto.
-E dopo che ha fatto?
-Sono andato a cena da mia zia Bettina, può controllare.
-Controlleremo, stia sicuro che controlleremo.
Potevano controllare! La zia Bettina a 76 anni era surda cuomu na campana e che avrebbe risposto? Ai carabinieri? Mancu li cani! Gli avrebbe chiuso la porta in faccia già a un chilometro di distanza!
-Abbiamo finito?
-Dipende da lei! Mi avvisi prima di partire.
-Sicuramente!-concluse mastr’Angelo, alzandosi. Era stremato. Dentro e fuori. Il cervello gli fumava. Ma in fondo era contento. Era finita. Lu capitanu volia mu lu mbrogghja! Metterlo in mezzo! Accusarlo! A lui!

Mastr’Angilu decise di ripartire per la Svizzera martedì di Pasqua. Prima però doveva scendere a Guarna. Sabato si alzò all’alba come faceva sua madre e raggiunse lo stabile. C’era stata una guerra negli anni cinquanta che aveva ridotto tutti alla sconfitta, sia chi era rimasto, sia chi era fuggito; sia chi s’era lasciato sopraffare dal bisogno del lavoro, sia chi aveva guadagnato soldi veri da spendere per scarpe, vestiti e per porte nuove.
Ma il futuro non era mutato. Né all’estero, né a San Pietro. La sofferenza era identica. Canada o Svizzera, i calabresi crescevano senza radici. Avevano l’aria in cui sbattere le ali, ma non trovavano la terra su cui camminare. Così si sentiva mastr’Angilu in quei giorni. Nu picciune senza terra! Trent’anni di lontananza e solo ora capiva quanto gli erano mancati gli sguardi d’odio e d’affetto di amici e parenti, il frastuono delle frasche, i fruscii delle serpi, il verde ruvido dei fichi. Aprì il cancello ed entrò nella sua terra. Una marea d’erba, di pulicari e cardieddhi. I rami tremavano nel pulviscolo fioccoso che il vento spiumava dalle corolle secche dei cardi. Si addentrò fra le ortiche. Poi la vide. La Petra de Guarna! Un masso di granito alto quanto una casa a due piani. Scagliato come un proiettile da qualche immane eruzione preistorica. Da ragazzo l’aveva scalato due o tre volte. E da lassù, in piedi, aveva visto che c’era molto altro da vedere. Altri uliveti, altre colline e altro mare. La raggiunse col fiato grosso. Nella memoria la ricordava misteriosa. Magica. Invece era semplicemente grigia, punteggiata di grani scuri, fittissimi. Ecco come bisognava essere; come la Petra de Guarna! Non di carne, né di sangue. Senza pensieri e senza dubbi. Immobile, impassibile. Indomabile. “Na petra!” Invece l’uomo d’oggi non faceva altro che mascherarsi e imbellettarsi e vendere la propria onestà e spidocchiare il proprio coraggio. Solo la Petra de Guarna, rimaneva sorda alle tortore e alle cicale, indifferente alle lucertole stiracchiate sugli orli delle sue crepe. Mastr’Angilu ebbe come un fremito. Se la sentì dentro quella pietra, ‘mpilata nel petto, e si accorse che non era mai partito. Era rimasto sempre lì. Ai suoi piedi perché soltanto lì era stato felice… a morire ogni sera e a rivivere ogni mattina. E niente s’era perso di ciò che era stato; nonostante gli orizzonti diversi e i volti sconosciuti fra i quali era andato a finire. Nonostante Laura e mastru Cicciu, la vendetta e l’amore. Nonostante tutto, nonostante…
-Tu qui? E che ci fai?- la voce che l’aveva perseguitato nei sogni era riemersa fragile come la neve…
-No llu sacciu, mancu io! Mu ti viju…
E non si erano nemmeno abbracciati. E come potevano? Non l’avevano mai fatto! Poi, nel silenzio duro della serata, si erano accorti, uno di fronte all’altra, che si erano saccheggiati a vicenda. E invece di gridare e maledire avevano singhiozzato. Poi si erano ascoltati e, ascoltandosi, la resistenza era svanita. Così non avevano avuto più domande da porre sulle labbra, ma solo fantasie da splamare sulla pelle…
Sentì la bocca asciutta e un po’ di prurito sulle carni. Si rassettò la giacca, volse le spalle alla Pietra e tornò a richiudere il cancello. Aveva sete. E ricordò la madre, quando veniva a raccogliere le ulive o i fichi, rossa in viso e gli occhi rigonfi.
-Dunami na guccia d’acqua!- e lui le porgeva lu vozzarieddhu.
-Nda vue ancora?
-No! No! Vivi tu, ora!- e Angilinu vivìa, appoggiando le labbra dove le aveva appoggiate la madre.

Giuseppe Gallo, nato a San Pietro a Maida (CZ) il 28 luglio 1950, diploma di Liceo classico, laurea in Lettere Moderne, è stato docente di Storia e Filosofia nei licei romani. L’impegno civile sul territorio lo spinge a un rapporto sempre più stretto con la poesia dialettale.
Negli anni ’80, collabora con il gruppo di ricerca poetica Fòsfenesi, a Roma. Delle varie Egofonie, elaborate dal gruppo, da segnalare “Metropolis”, dialogo tra la parola e le altre espressioni artistiche, rappresentata al Teatro “L’orologio” di Roma.
Sue poesie sono presenti in varie pubblicazioni, ultima in ordine di tempo
“Alla luce di una candela, in riva all’oceano” a cura di Letizia Leone, L’erudita, Pironti, 2018.)
Di fossato in fossato, Lo Faro editore, Roma 1983
Trasiti ca vi cuntu, P.S. Edizioni, Roma, 2016, con la giornalista Rai, Marinaro Manduca Giuseppina, storia e antropologia del paese d’origine.
Nel 2017 è risultato tra i finalisti del “IV Premio Mangiaparole”, sezione Haiku.
Arringheide, Na vota quandu tutti sti paisi…, poema di 32 canti in dialetto calabrese, Città del Sole, R. Calabria, 2018
Collabora, in qualità di redattore, alla rivista di Poesia “Il Mangiaparole” .
Spesso interviene sulla rivista internazionale di poesia L’ombra delle parole.
Avvicinatosi alla pittura, l’artista si concentra sui volti e gli sguardi, mettendo in luce le piaghe della modernità: consumismo e perdita dello spirito. Negli ultimi lavori ha abolito la rappresentazione naturalistica degli oggetti per approfondire i rapporti tra colore, forma e materiali pittorici.
Dal 2006 in poi ha esposto a Roma, Mentana, Monterotondo, Brindisi, Lecce


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