La pasta è davvero un cibo molto antico: si hanno tracce della pasta negli scavi archeologici di un villaggio del neolitico in Cina, in tombe etrusche in Italia; era il cibo preferito di Cicerone e anche di Orazio, che nel 35 a. C. scriveva: «…inde domum me ad porri et ciceris refero laganique catinum (me ne torno a casa alla mia scodella di porri, ceci e lasagne)».
Ne parlava Apicio nel I secolo a. C. in De re coquinaria, il primo libro di ricette della storia, e poi Boccaccio nel Decameron, a proposito delle meraviglie del Paese di Bengodi. La patria della pasta è il sud Italia, in particolare la Sicilia, dove già intorno all’anno Mille a Trabia, vicino Palermo, si faceva un tipo di pasta secca lavorata in filamenti che aveva il nome arabo di itriyah. Era un cibo così diffuso che da lì fino al Medioevo i siciliani furono considerati formidabili mangiatori di pasta e meritarono per primi l’appellativo di mangiamaccaruna, seguiti dai napoletani e dai calabresi qualche secolo dopo, quando nel Cinquecento iniziò a Napoli e dintorni la produzione dei primi pastifici.
Da allora fino ad oggi, la pasta, sia fresca che secca, si è diffusa dappertutto, confermandosi come uno dei cibi più sani, equilibrati e gustosi che ci siano e maccherone, da termine dispregiativo, è diventato nel tempo sinonimo di bontà e italianità in tutto il mondo.
L’etimologia di maccherone è incerta: potrebbe derivare dal latino maccare, che significa schiacciare, oppure da Maccus, personaggio delle commedie atellane, un Pulcinella antelitteram sciocco e mangione, o ancora dal greco macron, grosso, o makaria, impasto di orzo e acqua. D’altra parte scopriamo con piacere che makar in greco significa anche felice, il che fa venire in mente gli scialatielli, (tipo di pasta fresca campana e calabrese), termine che potrebbe discendere da scialare, sentirsi felici.
I maccaruni calabresi sono da considerarsi senz’altro i capostipiti della pasta, l’amatissimo cibo che nacque nel Sud Italia e si diffuse poi nel resto della Penisola e nel mondo.
Tuttora i maccaruni in terra bruzia sono conosciuti e confezionati con maestria e vengono chiamati in tanti modi a seconda delle località: maccarruni i casa, scilatielli, scialatielli, firrazzul, maccarruni a firrettu, fileja, fhilateri, strangugliapriaviti, ma si tratta sempre di pasta di grano duro, preparata con un impasto di semola e acqua, e modellata intorno a un ferretto di sezione quadrata. Anticamente per lavorare la pasta venivano usati i gonaci, gli steli legnosi del fiore della disa, successivamente ferri da calza o ferretti di un ombrello rotto.
I maccheroni calabresi per tradizione vanno conditi con ricchi sughi a base di pomodoro e carne di capra, manzo o maiale (maccarruni cu’zucu ra crapa, ru boi o ru porcu), da completare con una grattugiata di formaggio pecorino o di ricotta salata. Con lo stesso impasto si possono confezionare le lagane, (dal greco laganon, sfoglia di pasta tagliata) striscette di pasta larghe circa tre centimetri e lunghe otto o dieci adatte per gustose minestre come i ciciari culli lagani, di rito in Calabria nel giorno di San Giuseppe, e sontuose paste al forno, con le lagane più grandicelle alternate a sugo di pomodoro e ripiene di purpetti, suprissata e provola silana. Le lagane non sono altro che le antenate delle più moderne lasagne.