0-1
30 maggio 2025

Premio Letterario Nautilus

«IL VECCHIO E IL TOPO» di Ada Murolo – Racconto Finalista Premio Nautilus 2025


C’era una volta un vecchierello che spazzava la cresiolella. Spazza che ti spazza, trovò un soldino. Che cosa si comprò con quel soldino?

Ora vi racconto come andarono le cose.

Bianco e curvo, il vecchierello era il sacrestano della Chiesa Piccola e ogni sabato sera, da quasi cinquant’anni, puliva il vecchio mattonato: spazzava e lavava e non doveva fare altro, perché i fiori nei lunghi vasi di vetro li mettevano le due suorine della Chiesa Grande la domenica mattina.

Quella sera, si era ormai all’imbrunire, notò una monetina che luccicava sul pavimento, ai piedi di un vecchio inginocchiatoio.
Quante volte, mentre spazzava tra l’odore di polvere e di fiori dolci e un po’ nauseabondi, aveva sperato che un soldo della questua fosse rotolato furtivo nella penombra di un angolino!

Non avrebbe risparmiato quel soldino: era un segno della provvidenza.

Appoggiò in un angolo la ruvida scopa di saggina, chiuse alla bell’e meglio la pesante porta e uscì sulla piazzetta.

Qualche bambino giocava ancora, scalzo sui gradini della chiesa; donne indaffarate andavano e venivano, portavano a casa l’ultima cesta del pane appena sfornato: era sabato.

La bottega di zio Paolo era ancora aperta. Il vecchierello , un po’ indeciso, pensò che forse avrebbe potuto concedersi un buon bicchiere di vino, rosso e forte, scambiando all’impiedi quattro chiacchiere col suo vecchio amico; ma a casa non l’aspettava nessuno per cena e certamente il vino lo avrebbe  intristito. Alla fine decise di prendere, in cambio della monetina, una ciotola di latte da Rossello, il lattaio, che munse lì per lì la sua capra, legata in cortile ad un vecchio fico dal tronco scuro e contorto.

Si recò a casa, poggiò la ciotola su di una mensola e ritornò al suo lavoro.
La casetta del vecchierello era molto povera: il focolare era quasi sempre spento, il letto aveva un materasso informe di cartocci secchi di granturco, crepe sui muri; un paio di mele avvizzite stavano ormai da giorni e giorni sul vecchio tavolo di legno.

Da un pertugio tra il pavimento e la parete fece capolino il Topo. Veniva fuori dalla sua tana quando il silenzio o i rumori consueti, familiari, lo rassicuravano: il russare del Vecchio o la quiete di quando lui non c’era, o il trasalire degli scricchiolii del legno dei poveri mobili.

Un breve e velocissimo giro d’ispezione: scoprì il latte tiepido e grasso sulla mensola e vi si tuffò, muso e baffi, con ingordigia.

Quando il Vecchio tornò a casa, il topolino, culo tondo e coda pendula, ancora beveva che stava scoppiando, e non si accorse di lui che, furibondo e deluso fin quasi alle lacrime, gli si avventò contro e, afferratolo con violenza dalla coda e facendolo roteare, gliela staccò! Il poveretto, scaraventato in un angolo, gonfio come un otre e senza coda sembrava una pera matura.

“Dammi la coda, dammi la coda!”, piagnucolava il Topo, umiliato e sconvolto per la terribile incursione del Vecchio, “Ti supplico, rendimi la coda!”

Ma il vecchierello voleva il suo latte e con una rabbia e un’intransigenza nuove, feroci, rispose che la coda gliel’avrebbe resa quando il Topo avesse saldato il suo debito.: “Prima il latte, poi la coda!” sentenziò.

All’incauto ladruncolo non restò che accettare le condizioni del Vecchio e se ne andò.

Si diresse verso la fiumara, ai margini della quale c’erano i porcili, qualche stalla sgangherata e, legata a un tronco rinsecchito, la capra di Comare Mariuzza.

Ma ormai avanzavano le ombre della sera e la strada era lunga, nonostante già si udisse da lontano lo sciacquio dei rigagnoli gonfi dell’ultima pioggia della tarda primavera. Tra meno di un mese la fiumara sarebbe rimasta asciutta, e la luna, che adesso illuminava di scaglie la nera corrente, piena ne avrebbe inondato di latte e d’argento il sassoso letto, largo e deserto.

La notte era grande e calma e fresca e odorosa, le stalle erano ancora lontane e ormai tutti gli animali dormivano; e così la bestiola senza coda, confusa e impaurita, si rifugiò sotto un cespuglio a ridosso di una casupola diroccata e, sfinita, si addormentò.

Alle prime luci dell’alba, il passo stanco di un asino già carico, tirato per la corda da un vecchio padrone, svegliò il topolino.

Riprese il cammino trotterellando piuttosto allegro in direzione della fiumara. Tutto era ancora calmo, un’aria rosea illuminava sullo sfondo una misteriosa casa dorata, superba sulle pendici della collina, le imposte ancora chiuse, quasi nera la quercia che accanto le faceva la guardia.

Giunse alle stalle che la capra di Comare Mariuzza era già sveglia; insoddisfatta e irrequieta girava attorno al suo giaciglio di paglia, tirando la corda che quasi la soffocava.

Timido e impacciato, il topolino le si parò innanzi –se così si può dire- e, alzando la voce per attirane lo sguardo inebetito, le parlò così: “Capra, capretta, ti prego, mi dai il latte, ché lo devo restituire al Vecchio che tiene in ostaggio la mia coda?”

La capra si fermò, ma continuò a guardare in un punto lontano, molto ma molto al di sopra della testa del povero topolino: sembrava non essersi accorta di nulla.

“Capra capretta, mi dai il latte, che lo do al Vecchio e il Vecchio mi restituisce la codaa?” urlò il Topo all’indifferente muso della capra.

Piegando la testa da un lato per guardarlo bene, “Senti,” rispose, “io ho fame: portami dell’erba fresca da qualche prato umido qui intorno. Beh, poi ti darò il mio latte.”

Almeno aveva capito, aveva promesso. Il topolino pensò che non sarebbe stato tanto difficile trovare dell’erba fresca: intorno alla casa dorata sulla collina occhieggiavano giallo-limone i fiori dell’erba sucamèli.

“Mi arrampicherò fin lassù!” decise, pieno di speranza e di entusiasmo.

Fu piacevole attraversare la fiumara gorgogliante: pochi saltelli sui sassi freschi, ora asciutti, ora viscidi e sporgenti dall’insistente acqua corrente, che trascinava con sé, facendoli rotolare, alcuni sassolini mondi e brillanti:

“Pietra che non fa lippo la fiumara se la porta…” ripeteva spesso il Vecchio.

Imboccò il viottolino, in mezzo al grano che era ormai quasi giallo: gli altissimi papaveri ondeggiavano lenti lenti e le inconsistenti corolle fluttuavano di seta alla brezza mattutina; maggiolini di smeraldo, coccinelle puntinate di nero, api, bombi e candide farfalle cavolaie- le Pieridi- erano già in frenetica attività; formiche trasparenti, rosse quasi, lucertole e passerotti irrequieti, occhi tondi e mobilissimi.

Però il viottolo era in salita e il topolino si stancò, si sedette e cominciò a disperare di poter raggiungere l’altezza della collina. Ma una radura appena più in su, dove terminava il fitto campo di grano, lo rincuorò: “Non è necessario che io raggiunga la cima della collina: troverò un po’ d’erba fresca qui vicino.” pensò.

Cammina cammina, il sole cominciò a riscaldare i campi, il grano e la terra. Arso e affaticato, il topolino giunse al piano.

Neppure un filo d’erba: terra argillosa e sterpi. Una mantide religiosa pregava leggera dondolandosi su un secco stelo giallo.

Com’era tutto lontano: la sua tana, il vecchierello, la capra e il campo di sucamèli!

“Un po’ d’erba!” gemette il Topo, “Dammi un po’ d’erba, terra assolata, ché io la dia alla capra, così la capra mi darà il latte, il latte lo darò al Vecchio e il Vecchio mi restituirà la coda!”

“Acqua…” Al Topo sembro di udire un lamento: “Acqua, acqua!” implorava la sassosa terra, mentre cartacei insetti color paglia punzecchiavano e sbeffeggiavano la sterile radura.

Ma tutt’intorno era asciutto e l’acqua della fiumara era troppo distante, e così il Topo si mise alla ricerca di qualche sorgente lì vicino.
Cammina cammina, cerca che ti cerca, egli tendeva le orecchie a qualsiasi rumore, si fermava ogni tanto a sgranocchiare qualche seme per placare la fame, ma di acqua neppure un goccio.

All’improvviso s’imbatté nella grande ombra di una fontana di ghisa, solitaria e severa. Accanto, un secchiello ormai arrugginito, di quelli che i bambini portano alla spiaggia per giocare con l’acqua e la sabbia. Eppure il mare era così lontano! Poteva vederlo dall’alto della modesta altura che aveva conquistato: il sole lo faceva brillare di scaglie tremule, giù in fondo in fondo.

“Fontana, fontana, dammi l’acqua, che io possa bagnare la terra: la terra mi darà l’erba, io darò l’erba alla capra, la capra mi darà il latte, io porterò il latte al Vecchio e il Vecchio mi restituirà la coda…”

Il topolino attese immobile la risposta e, dopo un po’, la fontana paurosamente cominciò a soffiare come il vento di bora, e soffiò e soffiò potente, ma non brillò al sole neppure una stilla: non acqua uscì fuori, ma un suono cupo, vuoto, rimbombante, che sembrò salire dalle più profonde cavità della terra: “…sono malata…” rantolò la fontana.

Egli rimase attonito e annichilito.

D’un tratto ricordò di aver visto, percorrendo il sentiero in mezzo al campo di grano, la casupola di Mastro ‘Ntoni ai margini della distesa di messi.

Mastro ‘Ntoni era il fontaniere. Il Topo l’aveva visto spesso chiacchierare col vecchierello mentre riparavano insieme la cisterna arrugginita nel cortile della sacrestia.

“Mastro ‘Ntoni guarirà la fontana in men che non si dica” pensò il Topo e, ritornato sui suoi passi, si diresse quasi rotolando per la discesa verso la casa del fontaniere.

Intanto, alle sue spalle, il sole piano piano andava a nascondersi dietro la collina e il cielo rosso digradava poco a poco in un colore freddo e livido, e la luna, ancora opaca e grigia, si distingueva appena in uno scorcio di celeste sbiadito, striato da stracci di inconsistenti nuvole rosate. Un raggio del tramonto infuocava la casetta di Mastro ‘Ntoni, quasi la volesse salvare dal manto delle ombre della sera: brillavano d’oro i mattoni scuri dei muri scalcinati, mandavano bagliori di fiamme i vetri della timida finestrella –sembrava stregata- ma già la bouganvillea, che si abbarbicava sul muretto della scala, mostrava nere le sue foglie e neri i suoi fiori leggeri, raggiunta ormai dal buio della notte incombente.

Mastro ‘Ntoni osservava l’imbrunire, seduto sulla soglia di casa.
Con un rapidissimo trotterellio la bestiola giunse ai piedi di quell’uomo pensoso e, tese le grandi orecchie verso l’alto, gli parlò: “Mastro ‘Ntoni, ti prego, riparami la vecchia fontana: la fontana mi darà l’acqua, io darò l’acqua alla terra, la terra mi darà l’erba, io darò l’erba alla capra, la capra mi darà il latte, darò il latte al Vecchio e il Vecchio mi darà la coda.” E, fermo, aspettò la risposta.

Mastro’Ntoni guardò il Topo, serio e attento. Poi, lisciandosi i baffetti grigi, aggrottò la fronte e, tirandosi indietro la coppola sulla nuca rinsecchita, rispose: “Sorcio, ormai scende la notte ed io sono stanco. Andrò a dormire presto stasera. Torna domattina, con un paio d’uova fresche, e ti aggiusterò la fontana.”

Dal vicino vigneto una colomba, con un frullio rapido e ventoso, volò e sparve dentro una nicchia triangolare tra i mattoni della casa, in alto, sotto la grondaia.

Il sole grandiosamente era tramontato dietro la collina.

Allora il topolino se ne andò a dormire nascosto in mezzo alla legna accatastata sotto l’arcata che sorreggeva la scala, tra i fruscii, i sibili e i richiami della notte nera.

Il mattino seguente, di buon’ora, attraversò il vigneto.

Cammina cammina, tra polverosi filari di uva verde e cespugli di capperi, fitti di spalancati fiori lilla, giunse al pollaio che le galline erano sveglie già da un pezzo.

Due, grasse e rossicce, raspavano in terra alla ricerca di qualche verme nascosto; quando avvertirono la presenza del topolino, all’unisono piegarono di scatto il collo e borbottarono qualcosa nel gozzo, contrariate.

Il gallo non c’era.

La gallina ovaiola, dalle penne bianche e nere, di un bel rosso corallo i piccolissimi bargigli –quasi uno smerlo-, era accovacciata nella mangiatoia. Sembrava assorta e non mosse piuma quando il Topo le si avvicinò: “Gallina ovaiola, gallinella, mi dai un paio d’uova, ché io le do al fontaniere, così il fontaniere aggiusta la fontana, la fontana mi dà l’acqua, l’acqua la do alla terra, la terra mi dà l’erba, l’erba la do alla capra, la capra mi dà il latte, io do il latte al Vecchio e il Vecchio mi restituisce la coda?”

La gallina sbarrò stupita i rotondi occhietti gialli e, lentamente rispose con voce rauca: “Che?! COOSA? Uova?! Ma non ti sei accorto che qua non c’è neanche un chicco da beccare? Portami granturco, tanto, secco e croccante, e poi ti farò le uova…” Il collo teso, la crestina rossa appena piegata, alzò le sottili palpebre grigie e non parlò più.

Avrebbe voluto supplicarla di uno sforzo il topolino, voleva dirle che era stanco di cercare e che non avrebbe saputo procurarsi il granturco, che certamente le avrebbe ricambiato il favore, un giorno o l’altro, ma che, per pietà, lo salvasse da una situazione così penosa; quando improvvisamente l’ombra furtiva e silenziosa di un gatto sembrò oscurare il sole. Le rosse galline starnazzanti, gonfie le penne, basso il collo e le ali distese, misero a soqquadro il pollaio con la loro fuga concitata, e il Topo, soffocato in gola il doloroso lamento, si rifugiò atterrito sotto un grande cespuglio di capperi, fitto e scuro.

Era di nuovo nel vigneto. A stento trattenne un singhiozzo il povero pellegrino, perché la meta gli apparve angosciosamente lontana e la fine vicina.

Rimase immobile per un tempo lunghissimo, finché dai rumori tranquilli e conosciuti che provenivano dal pollaio capì che il pericolo era ormai lontano: persino l’aria sembrò respirare.

Riprese stanco il cammino, senza sapere dove mai sarebbe giunto.

Si ritrovò in una stradina in discesa e, cammina cammina, l’aria si faceva sempre più calda e i contorni meno nitidi, sfocati dalla calura meridiana.

In lontananza s’intravedeva il luccichio del mare, sbiadito per la troppa luce. Immerso in un boschetto odoroso di palme e di aranci, rosseggiò all’orizzonte l’ampio tetto di tegole di Marsiglia di una casa padronale. Sembrava disabitata: serrate le imposte verdi dei balconi e serrato il pesante portone dall’arcata di pietra.

Il topolino attraversò il polveroso cortile, si infilò dentro ad una porta socchiusa, sovrastata da una grata di ferro piatto, e si ritrovò in un magazzino. Di spalle, immersa in un’aria fresca e in un odore buono di lievito e farina, Donna Rosina, la massaia del barone, avvolta le trecce bionde in un fazzoletto bianco annodato sulla nuca, impastava il pane in una grande madia. Era tutto ovattato in una nuvola bianca di farina, sollevata ad ogni movimento delle braccia robuste della massaia. Il forno, scuro di fumo, era spento; di fianco, fascine di rami secchi attendevano.

Il Topo si avviò deciso verso un catino colmo d’acqua, poggiato a terra di lato, e bevve.

Fu così che la donna lo scorse con la coda dell’occhio e, continuando a impastare, gli chiese che cosa ci facesse lì. Egli trasalì e timidamente le si avvicinò.

“Donna Rosina, Donna Rosina,” piagnucolò con voce stridula, “mi dai una manciata di granone ché la do alla gallina, la gallina mi farà le uova, io darò le uova a Mastro ‘Ntoni , Mastro ‘Ntoni mi aggiusterà la fontana, la fontana mi darà l’acqua, io darò l’acqua alla terra, la terra mi darà l’erba, io darò l’erba alla capra, la capra mi darà il latte, io darò il latte al Vecchio e il Vecchio mi restituirà la coda?”

“Il Vecchio?… Ah sì, il Vecchio della Chiesa Piccola!…E’ tanto che non lo vedo…” rispose Donna Rosina ansimante, interrompendo per un attimo il faticoso lavoro. “Il granone te lo posso dare, ma è nella giara, sotto, nel magazzeno grande, e io non posso aiutarti: lo vedi che sto finendo di impastare e non ho ancora acceso il forno, e, se non mi sbrigo, il pane mi passa di lievito! Va’ tu, figlietto, svelto svelto, ma sta’ attento, ché ci sono due giare, quella del grano e quella dell’olio. Vedi di non sbagliare, sennò affoghi!” e riprese a impastare.

In fondo alla stanza, una porticina bassa si apriva su tre gradini di pietra sudici e scivolosi, verso uno stanzone freddo e buio, rischiarato appena da un raggio che filtrava dalla fessura di un’imposta sconnessa: mille puntini d’oro danzavano dentro la striscia di luce che, come un riflettore, andava a posarsi, rischiarandola, proprio su di una grande giara. Una ragnatela tremava leggera su uno dei manici. Accanto, in penombra, l’altra giara.

“Quale sarà la giara del granturco?” si chiese ansioso il Topo.

Le giare erano gigantesche, panciute e lisce, identiche.

Si guardò intorno, alla ricerca di qualche segno: cesti, panieri e bottiglie vuote e fiaschi, lasciati alla rinfusa su mensole impolverate, grappoli appesi di pomodorini rossi e tondi, crivelli e imbuti, ragnetti dondolanti da fili di madreperla, piccole botti, forme di cacio dalla scorza unta protetti da una rete metallica e fuligginosa.

Alla fine, quasi a sorte, il topolino si arrampicò sulla giara illuminata da un raggio di luce, che gli era sembrato motivo per ben sperare; ma la scalata si rivelò impossibile, per quanti sforzi facesse: continuava a scivolare sulla pancia sporgente della giara,  viscida, inaccessibile. “Ma certo!” intuì trionfante alla fine: ”Questa è la giara dell’olio!”

Come fu, come non fu, scalando panieri, saltando tra le bottiglie e slanciandosi dalle mensole, in men che non si dica si ritrovò, gonfio di audacia, sul gigantesco cratere dell’altra giara, colma di chicchi dorati. Poi si voltò a guardare, accanto, il minaccioso lago d’olio, cupo e immobile, e un brivido gli serpeggiò sulla schiena per lo scampato pericolo.

Riempì di granturco una mappina trovata dentro un cestino e, con il pesante fagotto tornò indietro, discendendo per fiaschi e panieri.

Ringraziò frettolosamente donna Rosina che, con le guance infiammate, bruciava i rami dentro la spalancata bocca di fuoco del forno, e uscì dalla casa.

Si stupì, perché il giorno volgeva al tramonto: tanto tempo aveva trascorso nel nero magazzino!

Giunse al pollaio che era oramai sera. Era tutto fermo; c’era un’attenzione sospesa, tesa, come di mille occhi che ti osservassero nell’oscurità. A tratti si udiva solo il mesto e querulo lamento dei pollai all’imbrunire, l’ultimo infantile sospiro prima della notte.

Il topolino si fece coraggio e, vincendo paura e imbarazzo, cercò, alla pallida luce di una lontana mezza luna, la gallina ovaiola.

La trovò sul trespolo, in fila insieme alle altre, che lamentavano a bassa voce non so quale stanchezza. Fu molto infastidita dalla tardiva visita del Topo, perché temeva che il gallo si potesse svegliare: avrebbe fatto le uova l’indomani all’alba!

Il topolino, mortificato e preoccupato, le lasciò il granturco e andò via. Trascorse la notte lì vicino, insonne, finché non vide le splendide stelle svanire ad una ad una.

Quando il pollaio cominciò piano piano a destarsi, puntuale la gallina ovaiola gli consegnò le uova promesse.

Orgoglioso e ansimante, il Topo giunse alla casetta del fontaniere, esibendo il malloppo: due uova ancora calde, lisce e pesanti, che Mastro ‘Ntoni bevve d’un fiato da un forellino del guscio, trasparente come una porcellana.

Si avviarono insieme verso l’altura, lentamente, senza parlare.

Mentre il mastro riparava la fontana, assorto e affaccendato tra strumenti di ferro sporchi di grasso, il topolino gironzolava lì intorno, oziosamente: rosicchiava qualche seme, osservava lo zigzagare nervoso di sfaccendate mosche cavalline e le esili processioni nere di formiche.

Gli sembrò che tutti cercassero invano qualcosa, inquieti, e che invece il suo faticoso cammino volgesse finalmente verso la meta.

L’acqua sgorgò all’improvviso, violenta e fragorosa.

Poi, Mastro ‘Ntoni si allontanò con gli strumenti sotto il braccio, finché non si udì più lo scalpiccio dei suoi passi e scomparve dietro la collina. Intanto il topolino si mise a trasportare l’acqua in quel secchiello di latta che era stato abbandonato vicino alla fontana, chissà da quanto tempo, e faticosamente annaffiò il campo, in mille e mille andirivieni. Il sole era ancora alto nel cielo, e il Topo sfinito si addormentò e sognò.

Fece tanti sogni confusi e agitati e poi sognò di trovarsi nella casa del vecchierello, ed era sera. Gli parlava e gli spiegava che era passato tanto tempo perché il cammino era stato lungo e difficile. Ma la sua voce suonava flebile, troppo per essere udita. Sul davanzale della finestra aperta un’anfora di terracotta si rovesciò e si ruppe per l’improvviso volo di una colomba, mentre il vecchierello continuava a spazzare assorto, alla fioca luce del lume a petrolio, davanti al focolare spento: sembrava seguire il filo di chissà quali pensieri, sorrideva e non si accorgeva di nulla. Accovacciata in un angolo della stanza, la gallina ovaiola, con gli occhi sgranati, ripeteva scandalizzata: “Senza coda?!? Senza coda?!? COOSA? Senza coda?!?

Il topo si svegliò che era l’alba del terzo giorno e, al suo risveglio, dalla terra umida erano già spuntate foglioline verdi e rugiadose. Spossato dal lungo sonno, ne colse tuttavia una bella manciata, un fascio fresco e fragrante di cui riempì il suo secchiello, e si avviò, discendendo le pendici della gialla collina, verso la fiumara.

Sembrava che il paesaggio avesse mutato aspetto; le querce e gli ulivi luccicavano di verde e d’argento, il grano era chiarissimo, le sponde della fiumara quasi asciutta erano fitte di canneti svettanti e di oleandri rosso rubino, mentre un venticello portava via l’ultima volteggiante pioggia di leggeri fiori di mandorlo, e sulle spinose pittàre rosseggiavano ostili i grassi fichidindia. Il letto della fiumara era immenso come un deserto, e il mare chiarissimo e immobile appariva remoto.

Il topolino attraversò la fiumara e si bagnò nell’ultimo rivoletto d’acqua gorgogliante, e giunse infine sull’altra sponda, alle stalle. Ritrovò la capra.

La capra era tranquilla perché Comare Mariuzza l’aveva già munta: aveva lasciato il secchio colmo di latte e si era allontanata alla ricerca di un rigagnolo per lavare i panni: la si poteva riconoscere in lontananza, col cesto della biancheria sul capo, dal suo incedere da regina.

Il topolino, offrendo alla capra l’erba fresca, le chiese un po’ ansiosamente: “Ti ricordi? Ti ricordi di me?” Essa belò, ma non tradì alcuna emozione alla vista dell’erba ancora umida: volse il capo e guardò oltre le lontane pianure della fiumara, verso la splendente distesa del mare. Egli allora, colto dal panico, si affrettò a riempire di latte il secchiello e si allontanò, prima che giungesse Donna Mariuzza, richiamata dal petulante belato della capra.

Si addentrò per i vicoli del paese nelle prime ore del pomeriggio, quando per le strade polverose non c’era nessuno.

Davanti alle soglie linde delle povere case, le rose di un rosa aranciato e dai forti gambi spinosi, piantate nelle bagnarole di latta, mandavano un profumo forte per i solitari cortiletti assolati, un odore misto a quello del basilico sui davanzali, accanto alle anfore dell’acqua.

Non c’era nessuno: soltanto una vecchia, seduta davanti alla sua porta con le mani nodose sul grembo. Da una piccola stalla buia si sentiva il fruscio del fieno, biascicato da un asino solo.

Cammina cammina, al topolino parve di udire la campana in lontananza e dal vicino mare sciacquettante lo avvolse un intenso odore di salmastro.

Avrebbe dovuto essere contento, ma la strada pareva interminabile ed egli ebbe l’impressione che non avrebbe più rivisto la soglia di casa.

Salì a fatica i gradini sconnessi della ripida scalinata e, giunto in cima, gli apparve alla vista la bottega di zio Paolo, ancora chiusa. Di fianco alla chiesa ecco finalmente la sgangherata porta della sacrestia: la casa del vecchierello!

L’aria era immobile e silenziosa e il Topo tremò un po’ per l’emozione e per una specie di timore. Stava per entrare, quando dalla porta socchiusa uscì Donna Annuzza, dalle fitte sottane scure sulle vecchie anche, con un involto di panni sgualciti sotto il braccio.

Il topolino si stupì di vederla lì a quell’ora inconsueta e le chiese se il vecchierello fosse in casa.

“Non hai saputo? Il Vecchio è morto, è morto ieri. Povero vecchierello, è morto solo. L’hanno portato via stamattina. Amaro, amaro lui …” rispose, e sospirando se ne andò, mentre le gonne le ondeggiavano sul passo lento e faticoso.

Il Topo entrò in casa. Il materasso di scarfoglie era piegato sul letto spoglio. Era tutto in ordine e immerso nel silenzio.

Appoggiò il secchiello di lato al focolare e, mesto entrò nella sua piccola dimora buia, tra la parete e il pavimento della sacrestia, ormai per sempre senza coda.

ADA MUROLO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Leggi anche...



News
West Nile, morta a Fondi 82enne: era stata...

Una donna di 82 anni residente a Nerola (Roma) è morta all’ospedale San Giovanni di Dio di...


News
Thuram, vacanze speciali: a Los Angeles con…...

Marcus Thuram con... LeBron James. L'attaccante dell'Inter si sta godendo le vacanze dopo...


News
Fregene, malore in acqua: muore 48enne

#speakup-player { margin: 0 !important; max-width: none !important; min-height: 130px...


News
Gaza, Idf prepara prima operazione di terra nel...

L'Idf ha messo un nuovo avviso di evacuazione per i palestinesi che vivono a sud ovest di Deir...