La casa sembrava un rudere, collocata al limite di un prato e circondata da quello che una volta era un frutteto, ora pieno di erbacce, le finestre sembravano occhi vuoti e dalle ampie fessure fra i mattoni spuntava l’erba. Anche se non sembrava, lei, la casa si sentiva abbandonata, trascurata, e lo era perché non era più abitata da almeno dieci anni.
Non risuonava più da tanto tempo di voci, rumori, musica, e se ne stava lì, triste, in attesa, perché le case hanno un’anima e assorbono i suoni e gli umori delle persone che le hanno abitate. Le voci dei bambini, i loro pianti e le risate, riecheggiano fra i muri, si nascondono nei cassetti, in ogni ripostiglio, quasi ad animare le stanze, a riflettere la gioia, l’angoscia, i dolori passati.
La casa era così, invasa dalla polvere, dalle ragnatele, i muri un po’ scrostati, i mobili coperti con ampie lenzuola: la cucina con gli stipetti bianchi, i divanetti a fiori, i ninnoli vecchi, il letto antico con la coperta di damasco, il cassettone con la specchiera dorata.
Per sentirsi meno sola, la grande casa raccoglieva i ricordi e nelle sere d’inverno, quando fuori era silenzio e soffiava il vento, lei riprendeva da ogni angolo i suoni e i ricordi del passato, li contemplava e li ripercorreva con tenerezza, come farebbe un vecchio nonno con l’album di famiglia.
Ecco, per esempio, in quella stanza grande al piano di sopra era nato il primo bambino che aveva vissuto sotto il suo tetto, Marco, perché allora era una casa nuova, costruita da poco per accogliere i novelli sposi, due ragazzi così giovani e così inesperti, felici di vivere in quel loro primo nido.
Marco era un bel bambino con grandi occhi blu, aveva addosso l’argento vivo e lei, la casa, risentiva ancora lo scalpiccio dei suoi piedini e le sue grida gioiose quando rincorreva il gatto che soffiava impaziente. Ricordava la sua voce, le sue prime parole, le sue corse nel frutteto dove dagli alberi cadevano i frutti maturi e succosi. In quella casa si respirava calore, gioia, il profumo del pane appena sfornato e della minestra fumante che la mamma preparava nelle sere d’inverno.
Poi erano arrivate altri due figlie, Alba e Teresa, che avevano ancor di più riempito la casa di giochi e di rumori.
La vita scorreva, i ragazzi crescevano, Marco diventò un giovane uomo, pieno di sogni e speranze. Ma era difficile costruirsi un futuro in un paese del sud, nei primi anni ‘50, quando il ciclone della Seconda guerra mondiale aveva lasciato solo i cocci di quello che era stato un paese in evoluzione. Un giorno decise di lasciare la famiglia per cercare lavoro al nord e inseguire i suoi sogni, lontano dal podere e dai suoi affetti. Dopo qualche anno, quando i suoi fratelli andarono ad abitare in paese, i genitori li seguirono, per vivere serenamente l’età che avanzava.
E la casa era rimasta lì, avvolta da un silenzio malinconico, Il tempo appesantì le mura, la polvere ricoprì ogni angolo e il vento, senza più voci da trasportare, ululava solitario tra le finestre rotte. Ma lei rimaneva in attesa. Perché le case che hanno ospitato l’amore non dimenticano e lei sapeva che un giorno Marco sarebbe tornato…
Era una mattina grigia e nebbiosa quando Marco si era trovato davanti alla stazione ferroviaria del suo piccolo paese, una valigia consumata stretta tra le mani. Aveva ventidue anni e un sogno, ma anche un peso nel cuore. La sua famiglia era riunita sulla banchina, sua madre aveva gli occhi lucidi e il padre, silenzioso, gli posò una mano sulla spalla. “Tieni alta la testa, figlio mio. Non dimenticare mai da dove vieni.” Marco annuì, incapace di parlare. Le sorelline lo abbracciarono forte, promettendogli lettere piene di disegni e parole.
Il viaggio verso una città della Svizzera, meta di molti suoi compaesani, fu lungo e carico di emozioni. Marco si trovò circondato da sconosciuti, ognuno assorto nei propri pensieri. Guardava fuori dal finestrino il paesaggio che mutava lentamente: le colline lasciarono spazio a pianure sconfinate, poi a montagne imponenti, fino ad approdare in una stazione gremita di persone.
Era arrivato alla meta, una grande città, affollata e rumorosa, dove la lingua gli era estranea e la gente intorno a lui camminava in fretta, senza guardarsi intorno. Si sentì piccolo, frastornato, perso in un luogo che sembrava non volerlo accogliere. I primi mesi furono molto duri. Marco trovò impiego come lavapiatti in un ristorante italiano, gestito da un uomo che parlava con un forte accento straniero. Le ore erano lunghe e la paga scarsa, ma almeno poteva mandare qualche soldo a casa. Passava le notti in una piccola stanza condivisa con altri tre ragazzi, tutti emigranti come lui, ognuno con una storia diversa ma con lo stesso sogno.
Tutto era nuovo per lui: il clima rigido, la città enorme, il cibo poco invitante, la sgradevole sensazione di essere un numero, un meridionale dall’accento marcato, emarginato e molto solo.
Una sera, mentre lavava i piatti, udì una melodia familiare provenire dalla sala. Si fermò per un istante, il sapone che gli colava tra le dita e si accorse che un violinista stava suonando una canzone del suo paese. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, ma il cuore si riempì di calore. Quella musica gli ricordò chi era e perché aveva scelto di partire.
Seguirono anni lunghi e importanti, logorati dal peso della fatica, pieni di nostalgia per la famiglia, ma Marco si sentiva sempre più forte ed incontrò diverse persone che segnarono la sua vita. Tra queste, c’era Amir, un giovane siriano che lavorava con lui in cucina. Condividevano storie di casa, sogni e speranze, e divennero presto grandi amici. Amir gli insegnò a cucinare piatti mediorientali, mentre Marco gli raccontava delle tradizioni culinarie della sua terra. Si sostenevano a vicenda nei momenti difficili e festeggiavano insieme le piccole vittorie.
Pian piano, la sua naturale timidezza si attenuò, cominciò a parlare meglio la lingua e lasciò il ristorante per essere assunto in un altro, dove la paga era la stessa ma il calore del padrone, meridionale anche lui, rendeva la sua vita migliore. La sera, chiuso nella sua stanzetta sotto i tetti, contava e ricontava il suo mucchietto di denaro, che cresceva piano piano, ed esultava fra sé e sé, era diventato un uomo a tutti gli effetti, proiettato verso il suo futuro.
Riuscì a mettere da parte abbastanza soldi per affittare un appartamento tutto suo e persino per iscriversi a un corso serale di cucina, il suo sogno da sempre. Ogni passo avanti era accompagnato da lettere piene di incoraggiamento e affetto da casa. Sua madre scriveva di quanto fosse orgogliosa di lui, e suo padre, pur sempre taciturno, aggiungeva una riga o due che Marco conservava come un tesoro. In quelle lettere, il suo paese viveva ancora: i racconti delle stagioni, le nascite, i matrimoni, le piccole e grandi notizie che gli facevano sentire meno la distanza.
In una delle serate libere insieme ad Amir, Marco conobbe in un locale Anna, una ragazza vivace, dagli occhi brillanti e dal sorriso contagioso. Anna era un’artista e lavorava in una galleria d’arte. Amava viaggiare e ascoltare storie di luoghi lontani. Tra loro nacque un’intesa immediata. Cominciarono a vedersi spesso, passeggiando per la città, scoprendo angoli nascosti e costruendo una relazione intensa, fatta di amore di condivisione e di sfide da affrontare. Anna lo incoraggiò a credere nelle sue capacità, a osare di più. Fu lei a spingerlo a partecipare a un concorso di cucina, dove Marco presentò un piatto ispirato alla sua infanzia. Vinse il secondo premio, ma più di tutto, guadagnò fiducia in sé stesso ed ebbe la soddisfazione di essere promosso aiuto-cuoco nel ristorante in cui lavorava, un ruolo che lo riempiva di orgoglio e che confermava il valore della sua scelta
Con il passare del tempo, il legame tra Marco e Anna si fece sempre più profondo. Condividevano le loro serate, raccontandosi desideri e incertezze e progettando la loro vita futura. Marco le parlava del suo paese, Anna ascoltava incantata, curiosa di conoscere un mondo così lontano. Insieme, cominciarono ad a esplorare la città. Marco si innamorò dei mercati affollati, delle luci che illuminavano le strade di notte, e delle biblioteche dove poteva sfogliare libri in silenzio. Fece amicizia con persone di culture diverse: un ragazzo del Marocco che gli insegnò a preparare il tè alla menta, una donna filippina che lo invitò a una festa di famiglia piena di risate e musica. Questi incontri gli aprirono gli occhi su un mondo più grande e lo aiutarono a sentirsi meno solo.
Il lavoro nel ristorante non era privo di sfide, diventava sempre più impegnativo. Marco si trovava spesso a confrontarsi con clienti esigenti e con l’intenso ritmo della cucina. Nonostante ciò, imparò a destreggiarsi con abilità tra pentole e padelle, guadagnandosi la stima del proprietario e dei colleghi. Con il passare del tempo, gli fu affidata la preparazione di piatti complessi, e in più di un’occasione, il proprietario lo invitò a lavorare per eventi speciali, come cene di gala e banchetti. Fu allora che si rese conto di quanto fosse cresciuto: da ragazzo impacciato e timido, era diventato un professionista sicuro di sé, capace di gestire situazioni di grande responsabilità.
La sua consacrazione come cuoco avvenne grazie ad una cena di gala molto importante, per cui Marco ebbe l’incarico di creare un menù completo per un gruppo di ospiti illustri. Lavorò per giorni alla selezione dei piatti, mescolando ricette tradizionali della sua terra con influenze locali. La serata fu un successo e il ristorante ricevette recensioni entusiaste, molte delle quali citavano l’originalità e la passione che trasparivano dai piatti di Marco. Quel momento segnò una svolta nella sua carriera e fu il lasciapassare per la sua affermazione professionale.
La sua vita aveva assunto ormai la giusta prospettiva, ma le ore migliori restavano per lui quelle in cui si lasciava trasportare dalle sue gambe e camminava da solo, perso nei suoi pensieri. Lo accompagnava la nostalgia del suo paese d’origine, un piccolo borgo incastonato tra dolci colline verdi, dove ogni angolo raccontava una storia, dove le case di pietra, con i tetti rossi e i balconi pieni di gerani, si stringevano attorno alla piazza principale, popolata da vecchietti che giocavano a carte e da bambini che correvano tra i banchi del mercato settimanale, pieni di colori e profumi.
Solitamente, Marco prendeva il treno al mattino presto e trascorreva ore a camminare per strade sconosciute, nelle città vicine, lasciandosi guidare dalla curiosità. In una di queste escursioni, incontrò una coppia di anziani del sud, che gestiva un piccolo caffè a conduzione familiare. I due lo accolsero calorosamente, offrendogli un dolce tipico e raccontandogli la storia del loro viaggio, le sfide affrontate e il grande amore per il paese mai dimenticato. In un villaggio di montagna, partecipò a una festa tradizionale locale e sebbene non conoscesse le danze né le usanze, fu coinvolto dalla gentilezza degli abitanti, che lo invitarono a ballare e a condividere i loro piatti tipici. Fu quella la prima volta in cui si sentì finalmente parte del suo paese d’adozione e si rese conto che, nonostante le differenze culturali, tutti gli esseri umani potevano sentirsi uniti nella condivisione di un linguaggio universale: quello dell’ospitalità e della vicinanza.
Dopo cinque anni, Marco era diventato chef in un ristorante rinomato. Aveva finalmente trovato il suo posto in quel paese che un tempo gli sembrava così ostile. Una sera, decise di preparare un piatto speciale: la ricetta di sua nonna, una zuppa di legumi e pancetta che racchiudeva tutto il sapore della sua terra natale. Quando lo portò in tavola, raccontò ai clienti la storia di quel piatto e sentì, ancora una volta, che la connessione profonda con le sue radici non si era mai allentata, ma era sempre lì, più forte che mai.
Dopo dieci anni, Marco tornò finalmente in paese. Era estate e i campi erano di un verde brillante. I suoi genitori lo accolsero con abbracci e lacrime di gioia, le sorelle lo travolsero con racconti e risate. Anna lo accompagnò, entusiasta di conoscere finalmente quel luogo di cui tanto aveva sentito raccontare. Il ritorno fu un momento emozionante di riconciliazione con il suo passato e di celebrazione, quando i suoi paesani si radunarono per accoglierlo, condividendo con lui cibo, storie e canti.
Mentre passeggiava per le strade del paese, riconoscendo volti e luoghi familiari, sentì dentro di sé una pace profonda e, quasi senza accorgersene, si ritrovò lì, davanti a quella casa, la sua vecchia casa che lo aspettava, diroccata, malinconica.
Entrò esitante e nel toccare il tavolo della cucina, nel sollevare un vecchio lenzuolo da un mobile impolverato, i ricordi esplosero attorno a lui. La casa non si sentì più sola e in un attimo, in una ridda di emozioni, gli restituì le voci del passato, il suono delle risate di sua madre, il profumo del sugo della domenica, il battito leggero dei passi delle sue sorelline. Le mura tremarono di emozione, i pavimenti scricchiolarono sotto i suoi passi, e per la prima volta dopo tanto tempo, la grande casa non fu più solo un rudere dimenticato, ma di nuovo un luogo vivo.
Marco si rese conto che non aveva mai veramente lasciato quel nido, il suo paese viveva in lui, nei suoi ricordi, nei sapori che portava nel cuore. L’emigrazione non era stata un abbandono, ma un ponte, un modo per unire due mondi e trasformare un sogno in realtà. Ora sapeva che avrebbe sempre avuto un luogo a cui tornare, un legame profondo tra passato e futuro, tra le sue origini e la vita che aveva costruito.
GIANNA NICASTRI