Era il mese di luglio. Il 4, per essere esatti. .Ed era il 1950. Dici luglio e dici mare e ti immagini un mese di sole raggiante e grilli a saltare e cicale a cantare. Invece, quel 4 luglio 1950 a Nocera pioveva a dirotto che era una bufera. E il vento mugugnava trattenuto tra gli alberi dell’alta collina, poi si disarcionava e impazzava sul paese. Erano fischi e sibili che sembravano razzi in cerca dell’esplosione. E portava via ogni cosa, casciotte, buatte vuote e cartacce, qualche bicicletta, i panni stesi dimenticati ai balconi.
E pioveva, pioveva, pioveva, che sembrava l’inferno dell’inverno.
Pioggia ai campi, ai monti, alla campagna, pioggia sui mari, nel sole, sin dall’alba fino al tramonto, pioggia sui tetti e le strade, i vicoli e le case, pioggia alla finestra e pioggia alla loggia, pioggia che cade, tintinna e tentenna, quando suadente, quando avvilente.
Il carabiniere Giuseppe Centrone, siciliano di 42 anni, in caserma prese la giacca dall’attaccapanni e si preparava ad uscire.
“Dove vai, con questo tempo?”, gli chiese l’appuntato.
“Vaiu ad accattari u pani, i picciriddi hannu a manciàri “, rispose il carabiniere.
“Ma dici davvero? Con questo tempo dove vuoi anda’, non vedi che bufera che c’è là fuori?”
“No, haju a jiri, i picciriddi hannu a manciàri”
L’aììppuntato insistette per levargli di testa l’idea.
“Aspetta che scampi. Il forno è lontano, da qui. Aspetta…”.
“No, haju a jiri, li picciriddi hannu a manciari”
E andò. L’appuntato lo vide aprire il portoncino e sparire sotto la pioggia. “Aspetta…”, gli gridò un’ultima volta. Ma il carabiniere era stato ormai inghiottito dalla nebbia e dall’acqua.
Mentre il vento mugugnava, fischiava, sibilava. E pioveva, pioveva, pioveva.
Uscito dalla caserma, quando passava, tutti lo chiamavano: “Ma drre jati, ‘u ru viditi cchi malutiempu, quant’acqua, fermativi, fermativi”.
E lui rispondeva: “Vaiu ad accattari u pani, i picciriddi hannu a manciàri “”.
Lo chiamarono dalla farmacia, che era in piazza, lo chiamarono dal bar, un po’ più sopra lo chiamò la fruttivendola, poi dal negozio di alimentari, poi il mastro scarparo che si alzò dal banchetto dove stava mettendo delle tacce nuove a degli stivali. Ma niente, la risposta era sempre la stessa, i picciriddi hannu a manciàri.
E chi lo guardava passare, pensava, quanta pioggia che cade e ogni pensiero, sotto il temporale, quando era sommesso, quasi commosso, quando era lamento, pianto e rimpianto, quando era risata, quando era il sorriso di un viso, quanta pioggia, pioggia di stupori, pioggia di ieri, di domani, di sempre, pioggia di quell’oggi.
Arrivò davanti alla Chiesa dell’Addolorata e una forza strana e misteriosa fu come se lo fermasse. Rimase assorto un attimo, poi fece il segno di croce, mandò un bacio alla Madonna e proseguì. Oramai era a metà strada, bastava percorrere gli ultimi cento metri e poi avrebbe imboccato la stradina che portava a una viuzza e poi a un’altra ancora. Il forno era lì, proprio in fondo al labirinto. E piove, piove, piove.
Pioggia incolore, pioggia grigia, che triste nel cuore finisce, si poggia e si alloggia, pioggia di amori e speranze, pioggia di viaggi nella notte, di occasioni perdute e occasioni mai venute, pioggia che ti trafigge, pioggia che volteggia.
Pioggia che cade su dal cielo, tersa, muta, severa, pioggia che ti dà la chiave del silenzio, per farti ascoltare quelle sperse parole, che si fanno largo da un mondo invisibile, ma che par si muovano, lentamente e lievemente, tutt’intorno, parole come di fantasmi, di anime lontane, pioggia di tristezza.
Giuseppe Centrone accelerò il passo. Un colpo di vento gli portò via il cappello. E il cappello si poggiò sulla strada, e sembrava dicesse “veniti a mi pigliari”. Lui tornò indietro, ma il cappello, portato dal vento, si spostò ancora all’indietro. E sembrava dirgli di nuovo “veniti a mi pigliari” Ma il carabiniere non capì il gioco e desistette. Poi tanto ti trovo, disse tra sé. E andò.
Imboccò la stradina che portava alla viuzza e poi a un’altra ancora, tutto sembrava fatto apposta per fargli perdere tempo, ma lui ormai era quasi arrivato.
Ma ecco all’improvviso uno sconquasso. Fu il trambusto di un tuono, il frastuono di un urto. Sembrava che il capo gli fosse entrato nel collo. Cadde a terra, gli occhi spalancati al cielo, mentre il cappello roteava e la sua adesso sembrava una danza triste.
Nessuno sa cosa provò, né cosa sentì. Pioveva, pioveva, pioveva. E il vento sembrava ora un lamento. Era caduto da un balcone, sospinta da una folata, una grasta. Sui verbali fu scritto un vaso di terracotta di fiori. Ed era caduto proprio in testa al carabiniere.
Un refolo di sangue gli scende dalla fronte e ora la pioggia che cade gli ricorda il passato, zampillante di ricordi, scrosciante di ore andate, brillante dei riflessi dei volti di una volta, fervidi fanno capolino anche i dimenticati, allineati nella nebbia con i mai scordati, pioggia di ritorni.
Pioggia che cade, ma quanto tempo è passato!, scandisce gli anni e i mesi, balbetta i giorni e le ore, frammenta i secondi, gli attimi, i momenti, tritura dolori, umori e rancori, e la memoria diventa canzone, accennata come una breve sensazione, certo che è vero, se n’è sprecato di tempo.
Pioggia che cade e gli spunta quel bambino con la cartella per l’erta verso la scuola e le scarpe inzuppate e il grembiule una spugna.
Pioggia che cade e gli riappare il campetto dietro la scuola e un pallone sotto il diluvio, le corse nel fango, i capelli lunghi bagnati, pungenti negli occhi.
Pioggia che cade e rivede la piazza, risente la brezza, odora la brina, il vetro che s’incrina.
Pioggia che cade e ritrova il camposanto assorto, quando lo portavano da bambino vestito di nero, acqua che era come se volesse ripulire chi entrava, pensava.
Giuseppe morì in pochi minuti, mentre la pioggia cadeva, il vento muggiva e il cappello ancora danzava come impazzito.
I commercianti del paese fecero una colletta per la famiglia, povera, e per fare portare la salma in Sicilia. Mia madre mi raccontava che tutti misero qualcosa. “Ci fu pure chi mise 5.000 lire”, diceva. Certamente a quel tempo erano una fortuna. “Arrivammo quasi a centomila lire, alla fine”. E i commercianti che avevano la libretta del credito, tutti lasciarono perdere e abbuonarono i pochi soldi, di abbigliamento, alimentari eccetera.
I funerali si svolsero in paese, con la moglie e i picciriddi.
Quando la bara era in piazza, un ragazzino trafelato scendeva correndo da una discesa.
“Il cappello, il cappello, ho trovato il cappello”, gridava.
Arrivò e lo poggiò sulla bara. Il cappello non danzava più, la fiamma si era spenta, l’acqua della pioggia rimasta brillante di sopra sembravano lacrime, sembrava mortificato il cappello perché non era riuscito a fermarlo da quell’appartamento mortale.
Non pioveva più, quando Giuseppe Centrone se ne andò con la macchina mortuaria verso il sole della sua Sicilia.
Tempo dopo arrivò ‘a figureddra della morte. A quello di mio padre sbagliarono un po’ il cognome. Mia madre la conservò per anni con la lista dei contribuenti alla colletta (tutti in paese!), chi con 10 lire, chi con 100, chi con 5.000 lire e spesso mi raccontava di questa storia. Ora la ripropongo, se no andrà dimenticata del tutto.
Era un altro paese, di gente più umana, più sincera, di gente più povera, ma più vera.