mago
30 gennaio 2018

News Lamezia e lametino

Calabria leggendaria: la misteriosa storia d’u Magaru (il mago) e d”a Petra d’u mancinu


In una zona non molto inoltrata delle montagne lametine vi è un sito, tra le frazioni di Serra Castagna e Cantarelle, chiamato u chianu d’u Magaru ovvero il pianoro del Mago.

Questo sito prende il nome come si capisce dalla sua caratteristica più palese che è quella di essere una zona pianeggiante: l’unica zona ampia aperta al panorama della Valle prima di inoltrarsi fra le pendici del Monte Mancuso.

Il soprannome Magaru fu dato al luogo e al protagonista di questa storia solo dopo la sua morte, soprannome che poi in futuro servì solo a identificare i suoi discendenti.

A dominare questo pianoro stanno lì i resti di una vecchia dimora in pietra risalente alla fine del 1800, essa guarda al panorama che si stende ai suoi piedi quasi come un faro o una torre d’avvistamento.

Questa casa, ormai quasi del tutto crollata, affaccia sulla splendida vista della Valle del Bagni come una silente cattedrale del tempo, i colori che la circondano spezzano quell’armonia naturale che la vegetazione ha creato nei secoli, quasi come un segno di riconoscimento, così che chi guarda da lontano questo luogo sappia che lì ancora c’è quello che in passato era un tatuaggio dell’uomo sulla terra e che tardi si appresta a sbiadire.

Questa località ha un fascino, nella sua storia e nella sua morfologia, che ci fa assaporare i tempi in cui l’uomo armeggiava con le stelle e con il creato per risolvere i misteri e i problemi quotidiani.

Quel terreno, quella casa erano abitati da una piccola famiglia; in particolare da una coppia di anziani e i loro figli, l’anziano uomo in particolare, come ci perviene dai racconti locali, pare amasse costruire aneddoti basati sulla concezione dell’ordine astrale, che lui interpretava guardando l’immenso cielo che di notte si stagliava dall’altura di quella casa. Ma soprattutto quale sorta di taumaturgo fosse grazie a quelle erbe curative che lui e la sua consorte piantavano il quel famoso chianu.

In quel terreno pianeggiante che sorgeva alle spalle della loro casa venivano piantate probabilmente alcune erbe officinali, tra cui forse queste che abbiamo trovato in piccolissime quantità: la menta, l’aglio, la camomilla, la malva e la salvia.

Queste erbe e i suoi criteri di traduzione dei mali e delle sfortune fecero del magaru da una parte un punto di riferimento per coloro che trovavano nei suoi metodi risposte alle proprie esigenze (malattie, disturbi mentali, e presunti eventi del malaugurio) dall’altra lo rendevano un uomo con cui non avere a che fare, un millantatore e un folle che inventava storie, un superstizioso.

Niente di anormale fin qui, almeno fin quando non si viene a conoscenza di una piccola leggenda che narra che quando le montagne erano brulicanti di pascoli e briganti, fu catturato proprio un brigante o presunto tale dalle guardie che avevano, a quei tempi, il compito di sopprimere il fenomeno del brigantaggio.

Le guardie dopo aver catturato questo brigante lo torturarono per giorni nell’intento di fargli rivelare il nascondiglio dei suoi compagni.

In quei giorni di tortura estenuante non riuscirono ad ottenere nessuna informazione dall’indiziato (vuoi perché non avrebbe mai tradito i compagni o perché effettivamente non sapeva nulla) ma i suoi aguzzini non contenti escogitarono un modo alternativo per far parlare l’uomo: informatisi che in quelle zone vi era un anziano Magaru che conosceva erbe, metodi e sostanze che riuscivano a far prodigi lo interpellarono per ottenere un intruglio che drogasse o aumentasse i dolori del brigante catturato affinché rispondesse finalmente alle loro domande.

Il Magaro, costretto dalle guardie, realizzò quella pozione che immediatamente le guardie usarono sulla loro vittima.

Passarono giorni ma il sequestrato non parlò, gli furono inferte le più dolorose torture ma sembrava che quell’uomo avesse una forza d’animo, un coraggio e una resistenza fuori dal normale. Di giorno in giorno le dosi di quella pozione gli furono somministrate sempre in maggiore quantità per farlo cedere ma tutto fu vano.

Il racconto vuole che questa vicenda termini nel più macabro dei modi. Infatti dopo infinite torture le guardie, spinte dalla loro incapacità nel gestire quel martirio, pare che uccisero l’uomo spellandolo vivo, esponendo la sua pelle su una grossa pietra fra le montagne dove fu catturato, così che la gente o i suoi compagni vedessero cosa significasse combattere contro di loro e sostenere i briganti.

Ma quel che forse fu la cosa più incredibile è che il Magaru, consapevole di tutto (nel racconto si narra che il Magaru avesse grandi capacità extrasensoriali e che riuscì a percepire le disperate sofferenze di quell’uomo), non realizzò quell’intruglio affinché il povero brigante parlasse o soffrisse le pene dell’inferno, bensì egli con inganno fece quel decotto con lo scopo che chi lo ingerisse potesse resistere al dolore fisico e mentale in condizioni disperate.

Un atto di coraggio a rischio della propria vita, una menzogna nei confronti di quegli uomini che torturavano la sua gente e che lo costrinsero a eseguire i loro ordini.

Un tiro mancino che salvò i compagni di ventura e alleviò le sofferenze prima della sicura morte di quel brigante. Oggi nell’immaginario collettivo locale il luogo dove era posta la pietra su cui furono esposte le spoglie di quel brigante è chiamata ‘a petra d’u mancinu.

Un racconto di Calabria, una leggenda o una storia che percorre gli avvenimenti e attraversa le tradizioni e le credenze ma che nella fantasia di quei tempi cimentavano gli esseri umani nei più efferati atti e nelle più coraggiose imprese.
Associazione Santi Quaranta Martiri


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