Questo breve brano è parte del mio primo romanzo “Il mistero della casa del vento”, nel quale ogni donna della quale viene narrata la storia è un vento. Qui la storia era quella di Irene, lo zefiro, un personaggio della mitologia greca personificazione del vento che soffia da ponente. Un vento leggero, simile alla brezza e messaggero della primavera.
Nello scrivere questo brano però ho regalato ai pensieri di Irene, il personaggio, qualcosa di mio: ovvero il ricordo della festa di S. Antonio com’era una volta.
Sono ormai circa dieci anni che questo pezzo “gira” sui social e torna a ogni giugno, alla vigilia della festa: qualcuno ancora lo condivide, così mi è sembrato bello ricordarlo quest’anno, con questa cartolina, visto che la festa non ci sarà.
Ve la porti comunque, sulle ali di queste parole, uno zefiro leggero.
La Festa di S. Antonio
Quando aveva bisogno dei colori, degli odori della sua terra, tornava là, a quel ricordo, e si sentiva viva. Tornava per le strade del suo paese quando per la Festa di S. Antonio patrono quelle strade si riempivano di luci e si vestivano a nuovo.
Era il 13 giugno e tutti gli anni per una settimana l’odore dolciastro di zucchero filato e torrone si spandeva per il corso principale e per le vie del centro. Le noci di cocco tagliate a fette e sistemate a cascata sotto lo zampillo d’acqua che lei però poteva solo guardare: suo padre diceva che l’acqua era sempre la stessa e non era igienico mangiarle. Il suo sguardo avido di bambina avrebbe voluto addentarne una e sentirne il bianco succoso tra i denti. La noce di cocco era stato il frutto proibito.
Risentiva la festa, l’eccitazione febbrile che portava con sé, il brulichio di persone, il fermento di voci in strada, la fiera piena di colori, le bancarelle che vendevano di tutto, e la giostra, anzi, soprattutto la giostra. La ruota panoramica, in particolare, da là sopra potevi guardare il mondo dall’alto e provare un senso di vertigine. Quella le piaceva da matti.
Quell’euforia le arrivava dritta dentro tutti gli anni alla vigilia della festa e per molto tempo l’aveva accompagnata nel crescere: l’aria fresca e le rondini di giugno, la fine della scuola, l’estate alle porte, le vacanze che cominciavano.
La cosa che le piaceva di più era guardare, rubare l’anima alle immagini. Per la festa del Santo patrono i cosiddetti “tamarri” si facevano il vestito nuovo per la bella stagione. Una cosa che praticamente avrebbero indossato solo quella sera. Era un tripudio di laminati, pizzi, fusciacche, balze, trine e merletti. Sottane, orecchini vistosi, collane e bracciali, indossati tutti insieme, tanto chi sa quando me li metto. Una girandola di colori accesi, accostati in maniera improbabile, a volte con pessimo gusto, ma che lei trovava bellissimi. Era un’autentica sfilata di stravaganza, manichini ingenui che portavano a spasso lungo il corso principale facce soddisfatte, allegre, sorridenti, quasi quel momento fosse l’arrivo una volta all’anno della felicità e grazie a S. Antonio!
La sera del 13 giugno c’era anche lo spettacolo con i cantanti sul palco allestito proprio sotto il municipio, era un febbricitante rimestio di persone che camminavano accalcate, una addosso all’altra, un fiume di gente che nemmeno ti ci muovevi dentro. Le piaceva quel clima vivo. Le piaceva guardare tutta quella gente, sentiva di farne parte. Gente che il giorno dopo avrebbe rimesso quel vestito nell’armadio come un cimelio pronto a essere portato alla prossima occasione importante: un matrimonio, un battesimo, chissà. O forse mai più. Era il vestito nuovo per S. Antonio. Gente che sarebbe tornata a lavorare nei campi, nelle officine; a pulire le case dei ricchi notabili, le donne; con i letti sempre rifatti, le coperte azzurre, o verdi, o rosa tenue, tonalità d’acquarelli, le balze ben tirate, i cuscini e la bambola vestita di pizzo proprio nel mezzo. La gondola o la torre di Pisa sulla televisione, portata da qualche parente, fortunato lui che aveva visto il mondo.
Gente che sarebbe uscita da quella casa per la scampagnate del Ferragosto, a “scialarsi” in montagna o alla marina, con la pasta al forno e le melanzane ripiene, le tovaglie grandi, il vino e tutto quanto.
Ma la sera del 13 erano tutti lì, a passeggiare come tacchini sotto l’illuminazione per S. Antonio, una galleria bianca intagliata a rosoni verdi, gialli, rossi e blu. E le 13 lampadine sui i balconi tutte accese per la festa fino alla processione, che si aspettava lungo le vie: S. Antonio faceva il giro di tutti i vicoli prima di tornarsene a casa, la sua chiesa, e via ai fuochi d’artificio, tutti con il naso in su, verso il cielo.
Lei camminava, respirava, e si sentiva felice, con la vita tra le mani.
Quando da ragazzina alle cinque del pomeriggio guardava dalle finestre, sentiva un soffio di vento leggero, le rondini sopra la testa, e pensava “Stasera posso fare tardi”.
E le sembrava aperto, il mondo. E il suo corpo, sciolto e leggero.
Daniela Grandinetti