Jacqueline Spaccini
11 dicembre 2020
Jacqueline Spaccini

Reportage, libri e dintorni

«CON CORAGGIO, GENTILMENTE» di Jacqueline Spaccini – Racconto finalista Premio Letterario Nautilus


«Non siamo innocenti». In questo modo, si chiudeva la lettera che Ivano aveva scritto al fratello Saverio, poco prima di lasciare le colline che gli avevano fatto compagnia negli ultimi mesi. Infilò la lettera insieme con qualche coltello e forchetta lavati alla bell’e meglio nello zaino, lurido e sdrucito, di tela militare. Richiusolo, passò la cinghia attorno alla spalla destra e uscì senza chiudere la porta; sbattendola e basta.

Guardò in direzione delle colline ondulate e incolte: un senso di pace, a dispetto di tutto, deformava il sentimento della sconfitta che serbava dentro, anche quella – come le stoviglie infilate poc’anzi nello zaino – non troppo pulita. I ciliegi bianchissimi erano in fiore.

«Ho cercato l’amore fino nel cuore di queste montagne. Ma non l’ho trovato. Ho persino scordato cos’è, l’amore. Non ho più pensieri da uomo; ho pensieri da cane».

L’ascoltavano le colline che gli erano attorno? Forse il vento s’era distratto per un attimo. Forse l’odore di polvere da sparo copriva tutto, fumigando anche il destino di quell’uomo partito in cerca di qualcosa che non ricordava più.

Ivano aveva addosso abiti che non avrebbero tradito il suo mestiere. D’altronde, non si sentiva nemmeno più un medico. Aveva finito per funzionare da registratore di cassa, e spesso da becchino, ma un becchino che non dà sepoltura ai morti. Le sue lacrime si erano trasformate in acqua risentita che si fermava là, sul bordo degli occhi, incrostandosi sulle ciglia, aride per natura. E i muscoli del collo erano corde amare.

«Mi sono guadagnato il basto del lupo in cattività. Sono sopravvissuto. Ma non c’è altro».

Laggiù, nulla è garantito, glielo avevano pur detto, quando s’era imbarcato nella folle impresa di fare il medico volontario in una guerra tra disperati.

Era un viaggio, in fin dei conti, no? Era un modo come un altro per conoscere un altro modo di vivere la vita, di pensare, di rapportarsi agli altri. Sì, ma che viaggio del cazzo! C’era la guerra, laggiù.

L’idealista, ingenuo imperterrito e sognatore che si vantava d’essere, era voluto ugualmente partire. Per stare con la coscienza a posto, s’era detto. La coscienza! Un lusso, tra quelle colline innevate di fiori che non si accordavano, stolide, col tempo. L’aveva detto lui che il tempo presente non valeva niente, no?; anzi, l’aveva persino annotato: questa storia è inabitabile e il suo tempo non vale niente.

Ora gli restavano i fremiti alle dita, come unico residuo di coscienza. Il medico poeta, dicevano gli amici. E lui, le sue poesie tedesche e americane le aveva ficcate nello zaino e portate con sé. Ma a che servivano? C’entrava qualcosa Celan con le siringhe sudicie di sangue, le scarpe infangate, e il pane intriso di terra quando c’era il pane? Sbagliato. Dire che si è partiti per idealismo, è una bugia. Era partito per Selima, per ritrovarla, per salvarla. E salvare sé stesso con lei. Ma l’amore non salva, l’amore si perde. E lui il suo amore l’aveva perduto nel momento in cui era riuscito a penetrare nella casa di lei, all’unico strambo indirizzo che aveva.

L’aveva perduto nell’attimo in cui ne aveva visto il corpo riverso su un letto immondo di sperma e di sangue, un corpo coperto di sperma e di sangue. Aveva distolto lo sguardo, allora. Non aveva ancora visto tutto quello che avrebbe visto dopo; un ventre aperto con le viscere a scivolare fuori, aveva ancora il potere di farlo vomitare, allora.

Finita la donna in quel corpo immoto e devastato. Finito l’amore.

Nelle ore successive, s’era ritrovato seduto in una kavana dai vetri infranti o assenti. Il tempo era già passato, il tempo passa sempre – con o senza di voi – e quando si risvegliò dal torpore, Ivano si ritrovò davanti una brodaglia nera e terragna che chiamano caffè. Gli tornavano alla mente lunghi istanti di sesso in germoglio, il suo amore arroventato tra le gambe della giovane donna. «L’amore va consumato, contemplato, l’amore va trasudato e comandato», diceva a lei cercando becere rime da organista ambulante.

E ora gli sembrava che tutto, nelle sue parole, annunciasse il presagio di un destino infame. Nuvolaglia incipiente, avrebbe detto il poeta da strapazzo ch’era stato. Non s’accorgeva nemmeno che le sue labbra masticavano ormai una poltiglia di terra nera, e che aveva fatto a meno dello zucchero per quel suo insulso caffè. Selima, Selima, Selima Selima, Selima, Selim, Sel…

Scivolo come le nuvole di notte, disattento, si mise a scrivere. E riprese: Da occidentale, le cose, mi incantano, in dissonanza… Si interruppe per guardare in alto le stelle che brillavano fortissime e foltissime. Qualche stella aveva il rumore dei caccia. Richiuse il quadernetto nero a righe grandi.

«Qui i sogni non esistono. L’amore sprecato… Dio non esiste. Ma non lo scriverò nel mio taccuino. I poeti cantano la vita, non la sua assenza».

Ivano aveva preso a non accorgersi della pioggia che cadeva incessante. Era stanco. Tanto stanco. Di sé stesso, della vita, deluso di non credere più nella sua illusione, nel suo senso nascosto. Ma la pioggia continuava a cadere ostinatamente ed anche uno che non si accorge più che in quei posti piove sempre, alla fine si alza, lascia la postazione. Va a cercare il caldo. Se ne frega del resto.

Estroverso, Ivano non lo era stato mai, anche se ingannava piacevolmente sé stesso e gli altri, grazie a un carattere espansivo, sopra le righe, pronto a farsi il buffone di tutti, per non accorgersi del silenzio che gli mulinava imperterrito dentro.

«Ehi, Cortesi, racconti pure a noi la trama del film americano che hai rifilato ai ragazzini del campo?»

Beati ragazzi, partiti volontari, come lui, giovani medici senza esperienza (un po’ di guardie mediche, qualche incarico mal pagato in cliniche private o giù di lì), ma con una gran fortuna: in quel paese, non cercavano nulla. Una volta, uno di loro, un toscano, gli aveva detto:

«Dai, Cortesi, l’amore dura quello che deve durare. Non prendertela troppo per quella ragazza; di donne è pieno il mondo».

«Come un orologio falso americano, insomma», aveva replicato lui.

«Ma come parli, santiddio? Oh, Cortesi, qui siamo in guerra, mica in un libro di poesie».

«Già… lascia perdere, vaneggio», gli disse di rinvio. Difatti, Ivano faceva ormai fatica a ricordare per davvero Selima e il loro amore. Non riusciva a mettere a fuoco. Bagliori, tutt’al più… Tutti i giorni, tutto il giorno, aveva da visitare donne, bambini (dio, quanti bambini!), vecchi, qualche uomo; brandelli di corpi e di coscienza che passavano quotidianamente sotto le sue mani, distrattamente. Come fossero un unico grande corpo.

Decisamente non era fatto per il mestiere di missionario, concludeva lui. E forse neanche per fare il medico: un medico ha speranza, o perlomeno fiducia nelle sue possibilità. Un medico non si arrende, un medico non si rassegna, non abbassa le braccia. E allora che cosa lo tratteneva ancora lì, perché non rientrava in Italia, a Roma? Qualche volta se la prendeva con Dio, anche se non ci credeva lui, nell’esistenza di Dio. Ne parlava come per una vena di dispetto con un frate autoctono, quasi sempre in quel breve attimo in cui l’orizzonte si tinge di viola:

«Padre Damir, che combina, il tuo Dio?»

«Lascia fuori Dio da questo orrore che è roba da uomini, Ivano», gli aveva replicato l’altro, in un accento che al giovane medico suonava curiosamente veneto.

«Eh già, voi uomini di fede la fate sempre facile; tutta colpa del libero arbitrio, no?» «Ivano, ma cosa cerchi? Se accetti un confessore ideale a farti da controcanto, io sono qui. Se vuoi sentimento, io ho sentimento e tempo per il tempo. Anche per il tuo». «Il tuo cuore è puro, padre, ma non posso dire altrettanto per i tuoi compatrioti». «Io sono figlio del cielo e di Dio, Ivano. Ed anche tu, sei più umano di quanto voglia dare a vedere. Te lo ripeto: cosa cerchi?»

«E chi lo sa, amico mio, chi lo sa? Forse solo un po’ d’amore». Si interruppe, poi riprese: «Me lo dici tu, dove lo trovo un po’ d’amore in questa terra disertata persino da Dio?»

«Guarda nel tuo cuore, Ivano. Guarda nel tuo cuore. Beh, ora vado… È l’ora dei Vespri».

Andandosene, non dimenticò di voltarsi, salutando come si conveniva a un francescano:

«Mir i Dobro, fratello».

«Pace e bene a te, padre Damir».

Intanto, i medicinali arrivavano dai soccorsi internazionali sempre più spesso con date scadute. Non solo la vita dei diseredati del campo scorreva in un tempo come sospeso, lasciandoli estranei a sé stessi e al loro destino, ma la vita stessa del dottor Ivano Cortesi scorreva, per nulla sfolgorante e in tutto distruttiva. Un’esistenza sospesa la sua che non lo trovava da nessuna parte, sordo ormai persino ai bombardamenti fattisi un poco più distanti. Un’esistenza provvisoria.

Ivano ripensava spesso, nelle albe che precedevano aurore d’un bianco opaco, sporco come il suo camice che nessuno si curava di lavare, ad altre albe, luminose e terse albe romane, che accendevano la sua stanzetta in una strada intitolata a due santi, dove nessuna spada straniera saliva a turbare i suoi sogni di studente.

«Quanto amore sprecato. Quanto cose, nel mio passato, sono a poltrire nella coperta del nulla… Solitudine beata, amori volontari… Altro che guerra e morte, sangue, poltiglia di carni, viveri indecenti, pioggia mista a fango, disgusto… Che dispersione, la mia giovinezza!».

Si guardò le mani e ripensò al tempo in cui erano leggere come l’ombra e non chiedevano altro che vergare, intrepide e felici, blocchi di fogli bianchi. «E intanto il tempo passa e non ho trovato niente di meglio nella mia vita che rinchiudermi in questa fossa dei dannati. Tornare a Roma… No, non ancora».

Era in quei momenti che Ivano si metteva in macchina, una sorta di jeep sgangherata, e prendeva a correre, a tavoletta, per i sentieri non più asfaltati e pieni di buche ricolme dell’acqua fangosa di quella terra. Il paesaggio gli scorreva accanto, placido e come immemore.

Mentre il cuore sussultava, gonfio di rancori insopiti, gli alberi lo salutavano e la radio parlava in una lingua di cui lui percepiva mozziconi di frasi, declamazioni nazionalistiche, bollettini di guerra che si depositavano gli uni sugli altri come le cicche delle sue sigarette forti, di un tabacco straniero che non gli riusciva di apprezzare.

Non gli sembrava neanche di guidare: era come se galleggiasse nel ventre materno. Certe volte lo aveva urlato al silenzio immoto di laggiù – terra senza vento – quel nome di madre, come fa un bambino quando ha paura, come fa un uomo quando sta per morire.

Un brivido lo percosse: non faceva freddo, solo che, cazzo… che senso aveva la sua vita? Cercò sul sedile di destra il quaderno nero e meccanicamente cominciò a rallentare la jeep. Gli serviva una Bic, ne aveva una nel cruscotto, fermò la macchina.

Un verso gli si agitava nel cervello dalla mattina: perché non spiegate tutto, perché non confortate, parole… Il resto venne, faticosamente, da sé. Ivano scriveva nervosamente: perché non spiegate tutto, perché non confortate, parole/ che compagne m’eravate, quando le emozioni diceva il mio volto di bimbo?/ Ora che siete solo immondizia del dolore, ora abbandonatemi, / non voglio più ingannare la verità né più usarvi come armi./ D’altronde piegarvi al mio affanno di vita non voleste mai./ Altro non chiedo che anestetica afasia./ Sono stanco di rincorrervi.

Strappò sbadatamente il foglio in quattro parti, dopo averlo riletto: versi da donna, neanche originali. Riavviò il motore, dette gas e accelerò con una profonda amarezza nel piede destro. Forse era finalmente tempo di rientrare a Roma, ma il cielo sopra di lui non dava tregua. Stava per rimettersi a piovere, Ivano aveva da ultimare una lettera a suo fratello Saverio e le nuvole della notte iniziavano di nuovo a scivolare.

Jacqueline Spaccini

FINALISTA PREMIO NAUTILUS. MOTIVAZIONE: Racconto ben costruito, prosa semplice, delicata e mai banale in cui l’autrice mostra grande capacità di raccontare il viaggio di ogni uomo nel territorio del dolore e della morte. Un viaggio in cui sogni e utopie ci accompagnano ma spesso non servono e tanto “amore sprecato” rischia di travolgere ognuno di noi. Fino a quando arriva “il tempo di tornare a casa”…

Jacqueline Spaccini è nata in Francia da una famiglia di emigrati umbri. Studiosa nel campo della letteratura e della pittura, è traduttrice dal e verso il francese: La ripudiata, Spring 2001, Miniprix centro del mondo, Manni 2009, Significations, Compiègne, 2012, con sporadiche incursioni nella poesia croata di Vesna Parun (Né sogno né cigno, Spring 1999). Dal 2009 fa parte della Compagnia delle Poete, fondata da Mia Lecomte. Nel 2010 ha vinto il premio speciale giuria al Premio Cesare Pavese con il libro Aveva il viso di pietra scolpita (Aracne editrice). Rientrata di recente in Italia, ove insegna letteratura francese, recita in varie compagnie e dirige un atelier di teatro in lingua francese. Tra le numerose pubblicazioni di critica letteraria, si segnala Sotto la protezione di Artemide Diana. L’elemento pittorico nella narrativa italiana contemporanea (2008, Rubbettino). Del 2016 è la raccolta di poesie dal titolo Io di più non posso darti (Robin edizioni). Nel 2019, ha pubblicato lo studio: Tracce dell’emigrazione eugubina in Lorena nella Francia degli anni Cinquanta (Sette Città) e tradotto la raccolta di poesie di Laure Cambau, La ragazza dipinta di blu (Lietocolle).

 

 


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