“Un’iconica star del tennis” come Novak Djokovic “può influenzare persone di tutte le età, ma soprattutto i giovani e più suggestionabili, e spingerli ad emularlo. Questa non è una fantasia, non servono prove”. E’ uno dei passaggi chiave nelle motivazioni della sentenza che James Allsop, capo del collegio di tre giudici della Federal Court, ha emesso per spiegare le ragioni della sua decisione di confermare l’espulsione di Djokovic dall’Australia.
Vinto un primo ricorso contro la revoca del visto per un vizio di procedura, Djokovic ha subito la stessa misura una seconda volta, stavolta per decisione del ministro per l’immigrazione Alex Hawke che ha esercitato un potere personale come previsto dal Migration Act del 1958. La legge infatti consente un tale, vasto, potere discrezionale in caso di minacce effettive o anche solo percepite come potenziali, su questioni legate all’ordine pubblico, alla salute, alla sicurezza dei cittadini.
I giudici hanno spiegato chiaramente che “la Corte non analizza i meriti o la saggezza della decisione, il compito è di valutare se la decisione (del ministro) rientra nei limiti di legge”, per quanto riguarda i tre aspetti su cui si è basata la difesa di Djokovic. I legali del serbo hanno contestato: il fatto che si siano dedotte le sue opinioni sui vaccini da un articolo della BBC del 2020; che la sua presenza in Australia potesse essere un rischio per l’ordine e la salute pubblica; che decidere su queste basi di revocargli il visto fosse illogico, irrazionale, irragionevole.
Per quanto riguarda il primo punto, i giudici sottolineano che non ci sono soltanto le sue perplessità di due anni fa a motivare la decisione del ministro e della Corte. “A gennaio 2022, Djokovic non è vaccinato. Il ministro ha tutte le possibilità di concludere che per un anno abbia scelto di non vaccinarsi. Il fatto che avesse una ragione per non vaccinarsi ora, avendo contratto il Covid intorno al 16 dicembre 2021 (data del tampone positivo, ndr) non dice nulla sulla sua posizione nei molti mesi precedenti”.
Inoltre, aggiunge il giudice Allsop, quando è stato fermato in aeroporto dalla Australian Border Force, Djokovic non ha fornito informazioni che potessero far pensare a un cambiamento delle sue convinzioni in materia. In termini di ordine pubblico, la Corte spiega che la presenza di Djokovic, anche se non avesse vinto l’Australian Open, “avrebbe potuto incrementare il sentimento anti-vaccini” tra i cittadini e incoraggiare chi vuole emularlo o essere come lui. La preoccupazione del ministro Hawke, si legge nelle motivazioni della sentenza, “non riguarda soltanto i gruppi anti-vaccini, alcuni dei quali hanno posizioni estreme e possono rappresentare un rischio per il buon ordine o l’ordine pubblico nella comunità, ma anche chi semplicemente è indeciso se vaccinarsi o meno”.
Inoltre, i giudici sottolineano come l’aver confermato l’intervista con L’Equipe del 18 dicembre e aver effettuato il successivo servizio fotografico senza protezioni pur sapendo di essere positivo, dimostra una “scarsa considerazione delle misure di prevenzione (da parte di Djokovic) che, se emulata, potrebbe incoraggiare una violazione delle regole in Australia”. Infine, i giudici respingono la tesi difensiva secondo cui il ministro non avrebbe tenuto in debita considerazione le conseguenze per la reputazione dell’Australia e soprattutto quanto il sentimento anti-vaccini possa essere incrementato dall’espulsione di Djokovic. La legge, scrive la Corte, affida al ministro il potere di revoca del visto se ritiene che “la presenza del possessore possa costituire una minaccia alla salute, la sicurezza, l’ordine della comunità australiana”. Solo gli effetti, anche potenziali, della presenza contano, non si richiede un’analisi contro-fattuale. Dunque, secondo i giudici, la decisione di revocare il visto da parte del ministro Hawke non è, nei limiti di legge, “irragionevole o illogica”.