Titti Preta
23 dicembre 2020
Titti Preta

Reportage, libri e dintorni

«Due donne allo sbando» di Titti Preta – Racconto I° classificato Premio Letterario Nautilus


Vivo in un paese sdirrupato, con una piazza assolata dove tutti stanno assettati a guardare chi passa. Mi chiamo Rosina, un nome che non mi piace per niente. Fussi pi mia mi chiamavo Filomena, ché suona bene, pare ‘na cantilena e a me la musica piace assai. Io sono la paccia che vive a modo suo. Una diversa, che la differenza non la fa. Figlia della Natura e della Luna, mie madri. Sono la magara, che esorcizza dall’affascinu con le formule recitate per tre volte a bassa voce, che caccia il male potente che s’infila nelle viscere, che toglie sonno e fame e fa sentire dolore fitto alle ossa. Senza padroni io vivo e amo la Terra, che mi nutre. Ma una donna sola non può stare, ché dà scandolo. Quando giro per la piazza, tutti si votano a guardarmi, li masculi fischiano, i picciriji mi inseguono, mi prendono a petrati, mi alzano la gonna. Le vecchie si fanno il segno della croce e mi sputano. Le lavandare, di ritorno dalla fiumara, m’insultano, dicono che sto sempre a lavarmi. Ma io nell’acqua mi ricreo, trovo la nettezza e mi asciugo all’aria, cotta dal sole. Mi metto su una muraglia scolorita della piazza e me lo arrubbo tutto il sole. Mi pettino i capelli lunghi, neri e lucenti, di cui vado contenta, mentre nel bar e dal barbiere dicono che sono una sballata, a cui manca ‘na rotella e che nel manicomio di Girifalco mi devono chiudere.

Vorrei sapere come farebbero senza la mia sensualità. Ché di giorno i masculi sono malipensanti, ma di notte diventano libidinusi e vengono nel granaio del vecchio mulino, dove dormo sul fieno. S’impossessano di me senza chiedermelo, non li vedo in faccia ma so chi sono, dal fiato puzzolente e dall’odore. Mi concedo senza una parola. Mi lasciano una moneta e se ne tornano di fretta, come cani bastunati, dalle mugliere che stanno in un letto freddo a sgranare il rosario o a recitare chissà quante Avemaria per purificarli dei peccati carnali. Ché non è loro la colpa, ma di quella maledetta che ha infestato la loro terra e mette in testa agli uomini pensieri immondi. Essa li chiama, che è ‘na magara. ‘ Na malanova se la deve pigliare a ‘sta sfacciatuna!

Eccome se sanno odiare, li fimmani! E sono pure ‘mbidiose, ché io sono bella, fiera come ‘na madunna, dritta come ‘na colonna della chiesa. Non tengo la schiena curva, ché non m’ammazzo di fatica, sto a scarfami al sole, e più di uno mi chiama la Salamandra. Non ho mai sgravato, perciò tengo il petto sodo, i fianchi stretti, la pancia in dentro. I muscoli ce li ho guizzanti, ché ogni giorno vado su e giù per i sentieri, mi arrampico sugli alberi, nuoto nel fiume. I capelli sono una pece senza un filo bianco. Sulla pelle ci passo ogni giorno una pozione alle erbe, un velluto sono!

Ma le femmine sono false, e si approfittano di me. Vengono pure dai paesi vicini – ché corre la voce – a farsi lejiri la mano, a farsi preparare le erbe magiche, quelle che solo io riesco a trovare nei campi, odorandole, masticandole, tastandole con le mani per sentire il loro potere. Le pesto sulla roccia, le faccio siccare, ci preparo i farmachi contro ‘u malocchjiu… e chi lo sa da chi ho imparato? Penso di averlo sempre saputo, certi cosi non s’imparano da nessuno. Sono nata così, ‘na paccia solitaria che sa leggere il destino, che vede il bene e il male e sa dove stanno di casa.

Sono figlia del caso, la dice lunga il mio cognome: Esposito. Io sono stata la distrazione di una notte, il frutto di un amore proibito, un castigo, un peccato da espiare.

Chissà chi m’ha messo al mondo, chissà da chi m’ha avuta … di sicuro sono stata un fardello da nascundiri, ‘na cosa di cui sbarazzarsi di fretta.

Spesso arrubbo le arance e i mandarini in un agrumeto abbandonato, prima che vanno a finire a terra e a marcire. Io mi nutro dei loro succhi, me li spruzzo pure sulla pelle nuda dopo il bagno nel fiume, con le bucce ci profumo ‘u pagghjiaru. In Calabria ne abbiamo troppe di arance, che quasi infettano la terra e nessuno le vuole. Come me.

Se trovo un melo, mi arrampico per raccogliere il frutto più bello. Io mi vedo come la mela che nessuno riesce a cogliere. Me lo sgranocchio in piazza ‘sta prelibatizza, a piedi scalzi, cantando a voce alta, con le veste a fiori scollata, ché a me piace provocare. Mi siedo sui gradini della chiesa, sorrido se c’è un raggio che mi scalda. E la gente mormora, finché il prete mi invita a trasiri, che mi deve redimere! Mi fa assettare in sagrestia: “Figgjia mia, pentiti, ché se ancora in tempo! Sei ‘na svirgognata… copriti!” e mi butta addosso ‘na palandrana e ‘u ncensu. Del mio corpo non ho virgogna, cos’è ‘stu pudore di cui parla? Io rido e lui mi mette un velo in testa, mi parla di Satana, di Maria Maddalena, dell’inferno, di lingue di fuoco e di cori di angeli, e non mi spaventa per niente. Mi benedice tre volte, si fa promettere che non vivrò “in connubio con il demonio”, che mi conterrò e non darò scandolo. Io continuo a ridere, lo abbraccio e me ne torno in piazza sul muro scalcinato a rubarmi il sole e a cantare.

Io sono pura come l’acqua della fonte dove vado a lavarmi ogni mattina, dopo che un uomo mi ha posseduta. Lo so che pure lì mi spiano, ma io non mi vergogno del mio corpo e poi a me la lordia non mi piace pe’ nienti. Sono gli altri, quelli sporchi, non io.

Io sono nata libera, prigioniera del sole che mi arrubba l’anima. La gente confonde la mia gioia con altro. A me piace cantare, gorgheggio dalla mattina alla sera, senza musica non vivo. Le donne dicono che sembro ‘na pigula, ma io canto lo stesso e me ne frico di loro, che non mi vogliono per amica.

La piazza è la mia casa, pure per questo ci cammino senza scarpe. Quelle coi tacchi non le so proprio portare, ‘na vota in parrocchia m’hanno rigalato un paio che mi stava a pennello, ma quando ho provato a camminarci, sono caduta. Ho vissuto per un po’ con gli zingari. Suonavano e cantavano sempre e m’ hanno imparata pure a ballare, senza aver paura di stare a piedi nudi sulla terra. La mia servaggeria e la magarìa che mi avvolgono da loro provengono. Pure da loro sono fuggita, come dall’orfanotrofio.

Lì ci sono stata i primi dodici anni di vita. Un giorno me ne sono andata senza problemi e mi sono unita a una compagnia di saltimbanchi e giocolieri. M’hanno fatto salire sul loro carrozzone, tutto dividevamo: il cibo quanto il letto. Ma quando volevano costringermi a praticare l’amore a pagamento, sono scappata. Nessuno può mettermi le briglie. Sono ‘na cavaja pazza, non conosco regole.

Io non tengo denari, non saprei che farci. E che mi devo comprare? Le donne mi lasciano qualcosa dopo che si sono fatte svilare il futuro o hanno voluto il portafortuna da mettere dentro la federa del cuscino per tenersi l’uomo sempre innamorato. Sono sceme, io le accuntentu. Gli uomini mi pagano, non molto, ma sempre. Io i quattrini me li spendo tutti alla fiera o al mercato, mi accatto i panni ‘mericani, faccio un figurone quando cammino per la piazza, tutte devono schiattare!

Una notte un uomo m’ha regalato un orologio, ma l’ho lasciato nello stipo, ché io non amo misurare il tempo, e che impegni c’ho? Io guardo il cielo e so che ora è, notte e giorno. Il mio tetto è il cielo stellato. Vivo alla giornata, ma non si tratta di trovarsi allo sbaragliu. Non ho paura della strada, ché non so stare al chiuso. Se non ci fosse la piazza col suo sole, io morirei.

 

Un giorno come tutti gli altri, che non c’avevo niente da fare e stavo a scarfarmi sul muro della piazza, incontro la cittadina che fa la soubrette, ‘na palora che non conosco. Parla bene l’italiano, è il mio contrario. Di statura piccola ma non bassa, sennò s’offende, – ché la donna troppo alta non va bene per lo spettacolo – bionda ossigenata, truccata, con una valigia piena di abiti da scena e di sogni, ancora da realizzare. Dice che è venuta in paese a fare il varietà, che un impresario l’ha mandata e il sindaco a braccia aperte l’ha accolta. Lei canta benissimo, tiene la scena. Al cinematografo da poco inaugurato tutti impazziscono per la sciantosa che non ha finito di fare la gavetta e non si fa mettere le mani addosso, perché anche lei non ha padroni.

Ci capiamo al volo, noi due. E’ la sorella che ora capisco d’avere sempre voluto, la compagna d’avventura che le racconti tutto e che non ti giudica mai. Non dico una mamma anche se, con i suoi quarant’anni, potarrìa esserlo. Ma io non la posso vedere come la mamma che non ho mai conosciuto, ché io non me l’immagino mia madre. Una che m’ha messo al mondo l’ho avuta, ma nell’orfanotrofio, quando chiedevo, nessuno rispondeva. Nessuno ha mai voluto sapere qualcosa di me. Solo lei s’interessa a me, mi vuole vicina, mi corregge quando parlo. Dice che devo imparare a leggere, a comportarmi, che la fortuna è sua perché ha trovato l’amica che cercava, la spalla su cui piangere. La sciantosa piange molto, si commuove per niente … quanto è fragile! Sembra un pulcino che io chiudo nel palmo della mia grande mano. La proteggo, nessuno le fa del male fin tanto che io sto con lei. Dovunque va, io la seguo.

Lei tiene paura di dormire da sola, mi vuole nel letto della pensione messa a disposizione dal sindaco, finché rimane in paese. E ci rimane, per lungo tempo, non so quanto di preciso. Giriamo insieme per la piazza, su e giù e tutti ci fischiano. Cantiamo a voce alta, ce ne frichiamo, due paccie da legare.

Lei di notte è inquieta, riempie i polmoni di fumo, ha le paturnie. Nessuno la capisce, solo io. Come tutti gli artisti, è malinconica. Ha tanti ricordi e rimpianti, una lunga vita alle spalle, molti gli sbagli. Io non so cosa significa sbagliare, e penso d’avere più morale di tanta gente. La strada insegna più della scuola. Certe cose non si possono leggere sui libri, bisogna viverle e io nella vita mi jettu a capofitto, non mi faccio risparmio. M’ imbratto del mio vivere da vent’anni e più, ché io non lo so quanti anni tengo. Basta poco e sono felice, la tristezza non mi viene a fare visita, mai. Contagio anche la sciantosa, la faccio ridere a crepapelle, la ubriaco di leggerezza, la porto nella piazza a rubarsi il sole, per lei sono la maestra della gioia. Non le basta. Dice che dobbiamo andarcene da qui e tentare la fortuna, ché c’abbiamo i numeri e i tempi lo permettono. Io e lei, mo’ nessuno ci divide, mancu ‘u demoniu.

 

Al suo matrimonio quanto abbiamo riso! Io stavo spaccando il corsetto, perché ero pure ubriaca, ma soprattutto felice, per lei. Mi divoravano con gli occhi, gli uomini. Ci siamo messe a cantare, io col microfono non l’avevo mai fatto, quanto ci siamo scialate! Le donne si chiedevano da dove erano sbucate ‘ste due paccie e non vedono l’ora che io, la storta, sparisco dalla circolazione.

Ma in città ci rimaniamo, ché la fortuna è arrivata e non ci ha messo tanto. La sciantosa se n’è approfittata, lei ci sa fare in queste cose. La fortuna è un vedovo tornato dalla ‘Merica grasso di carne e di dollari. Se l’è sposato appena ci ha fiutato l’odore del denaro, prima che lui ci ripensa e va a rimestare nel suo passato. Il vecchio tiene ottant’anni, ma è sano di testa e di corpo. S’accontenta di poco, non dormono insieme perché lui russa e la disturba. Se si uniscono una volta al mese, è pure assai.

La sciantosa non vede l’ora di sotterrarlo, così ci prendiamo l’eredità e ce ne andiamo dove vogliamo, in baffo ai figli che stanno nel Massachusetts e non sanno niente della Calabria dove lui è tornato per essere seppellito nel camposanto dei padri.

Lei gli dice che mi tiene come cameriera, quello fa finta di essere tonto. Sa ci unisce un legame profondo, che io sono quella che la tiene calma e le fa fare la brava mugliera.

Un tarlo la rode, di continuo. Il passato bussa continuamente alla porta del suo cuore. Io non so cos’è il passato, non tengo ricordi e rimpianti, ho cambiato la mia vita per lei, spero che ne vale la pena.

 

Passa il tempo e ridiamo sempre meno. Io debbo parlare la lingua, indossare abiti che mi stringono, portare i tacchi, tenere i capelli acconciati. Con le scarpe ai piedi cerco di non inciampare. Non posso sbagliare e fare soffrire la sciantosa, sennò si arraggia e poi sta male. Comincio a capire che la mia vita si accorcia ogni giorno di più. Io al futuro ci penso poco o niente ché ancora non m’interessa. Leggo ogni tanto le mani degli altri, ma la mia no e neppure quella della sciantosa. Lei non ha mai voluto, io non l’ho mai fatto. Mi basta guardare i suoi occhi, verdi e profondi. Ci leggo una tristezza mai vista prima.

La sciantosa tiene una raggia in corpo! Colpa dei soprusi che ha dovuto subire e che dice di subire ancora. Nella vita ha fatto tutto senza respirare. Ce ne ha due di vite in corpo, in combutta l’una con l’altra e dice tra le lacrime che prima o poi un diavolo se la trascinerà all’inferno. Da tempo lei non canta più, ma ama fare – come dice – la civettuola e che deve approfittare delle ultime cartucce. Sa che sta per fallire e vuole sfruttare gli ultimi momenti di floridezza che la vita le regala, tanto il marito non se ne impiccia. Passa il tempo a pittarsi le unghie, a impiastricciarsi il volto di creme, a ossigenarsi i capelli sempre più stanchi delle colorazioni. Pensa sempre a quando era giovane e le bastava solo il tocco del sole per essere bellissima. Mentre s’incipria, dice che io sono lei. Soffia sullo smalto fresco e rivede in me l’ingenuità e la foga di vivere e amare che ha perduto. Passa il tempo allo specchio, ne è schiava. Io odio specchiarmi, che me ne frega di come appaio agli altri? Mi sforzo di custodire la mia libertà, ma sento che sto soffocando. La sciantosa adesso è una signora e non può sbagliare, guai se lo fa. In questa città è peggio del paese. Qua vieni giudicata per come parli, ti muovi, ti vesti prim’ancora di agire. Glielo dico tante volte che questa non è la nostra vera vita, quella che abbiamo scelto gettandoci in strada. Si volta dall’altra parte, piange e mi commuove. Comincio a non resistere, lei può chiedermi tutto, ma non di fingere.

Da non so quanto rimpiango i prati, l’erba fresca, la rugiada, la fonte. Rivoglio la mia libertà, la felicità perduta. Torno paccia e lascio tutto il bendidio. Sono di nuovo una bestia selvatica, le gabbie non m’appartengono. Addio, mia bella sciantosa, compagna d’un lungo sentiero della mia vita.

 

Eccomi nella piazza del paese sdirrupato, per tornare a parlare la mia lingua, per svestirmi delle falsità, per rifare quello che ho sempre fatto. Ma sono diversa, in tutto. Me lo dicono i paesani che trovo appesantiti, invecchiati, asseriati. Nessuno di loro s’infila nel mio granaio di notte. Non c’è più superstizione, nessuno crede alle favole, al malocchio. La sera la gente sta assettata davanti al televisore. Le donne parlano al telefono, se ne stanno pomeriggi interi al salone del parrucchiere, si fanno fare la piega e la manicure. Un apparente benessere ha avvolto di falsità il piccolo mondo in cui vivevo. Ero più libera quando c’era ignoranza, povertà e si parlava solo il dialetto. M’accorgo di quanto tempo è passato dalle macchine parcheggiate davanti alle case, dai panni stesi che sono tutti alla moda, dalla mancanza di asini, di carretti, di mulattiere. Alla chjiumara donne che lavano i panni non ce ne sono, ora hanno la lavatrice. Io sono sempre la stessa: alta, magra, scura, senza rughe, ma le donne non m’invidiano più.

La piazza è vuota, manco un cane di vedo. Bambini che giocano non ce ne sono. Tutti chiusi a scuola e a casa davanti alla TV. Non si deve fare chiasso, bisogna essere educati, mo’ ci stanno le regole da rispettare e a stare in giro si perde solo tempo e non s’impara niente. Gli adulti sono impicciati col lavoro, con gli orari, con gli impegni, le scadenze, le bollette da pagare. La vita è cara, la benzina costa, la lira è svalutata. Il barbiere ha chiuso, ché gli uomini tengono il rasoio elettrico e non c’hanno tempo da perdere.

Si cammina di fretta, nella piazza che ora è un parcheggio. Il muro scalcinato non c’è più. Se non sto attenta, m’investono. Io mi confondo, troppo rumore. Le persone mi appaiono come i manichini che vedo alla Standa, dove passo il tempo sulle scale mobili finché le commesse non mi buttano fuori.

Io mi sforzo di essere quella che ero, ma se parlo in dialetto non mi capiscono. I giovani s’interessano poco a me, dalle loro parole m’accorgo che questa è un’altra epoca. Ho capito d’esser vecchia da quando ho smesso d’avere le mie cose, puntualissime ogni mese. Era quello un modo di contare il tempo. Ormai tengo il calendario, appeso alla parete della cameretta dove il nuovo parroco m’ha sistemata dopo che il granaio una burrasca l’ha distrutto. Ho capito d’esser vecchia da quando non ho avuto più voglia di fare l’amore, di desiderare la gioia, di lavarmi alla fonte, di starmene nuda sulla roccia, di acquattarmi nel bosco a sentire i gufi, a cibarmi di erbe, a sentire il palpito della natura dentro di me.

 

Un giorno come tanti, ecco una lettera. Nessuno mi aveva scritto, io non avevo un indirizzo, prima. Una volta arrivò una comunicazione dall’orfanotrofio, me la lesse il prete, mi spiegò cosa volevano, mi misi a ridere e tornai a fare la paccia. Questa lettera non fa ridere, per niente. A scriverla è il notaio della città dove sono vissuta con la sciantosa: è il suo testamento. La sciantosa è morta una settimana fa. Faccio il calcolo degli anni che aveva, in fondo non erano tanti. Quando uno che conosci muore, dici sempre che poteva vivere di più. L’ho ripensata spesso e chissà quante volte lei a me! Mi ritornano alla mente gli anni che abbiamo vissuto e che volevo seppellire nella memoria, senza riuscirci.

Mi ricordo delle avventure e soprattutto che la sua mano non ho mai voluto leggerla. Avevo un senso di trattenimento, una ritrosia … forse temevo di sapere chi fosse veramente quella sciantosa folle e temeraria. Ma il mio cuore l’aveva sempre saputo chi era: lei era mia madre.

Titti Preta

RACCONTO I° CLASSIFICATO PREMIO NAUTILUS-MOTIVAZIONE: L’autrice propone un personaggio originale, ben inserito in un ambiente sapientemente caratterizzato, in viaggio verso l’aria e la libertà. Si muove con sagacia nel descrivere, scolpendoli, i luoghi in cui l’angustia delle visioni è scardinata dall’entusiasmo della protagonista capace di farsi evoluzione ed emancipazione. La scrittura è una fitta trama di vibrazioni, colorata dalle espressioni dialettali, che si distingue per l’originalità delle impostazioni, rimandando a immagini intense e palpabili, come i sentimenti e le emozioni che richiamano.

Titti Preta, vibonese, Laurea in Lettere Classiche conseguita a Firenze, docente di ruolo di Italiano, Latino e Greco al Liceo Classico Morelli di Vibo V., delegata del F.A.I. di cui coordina le attività culturali, esperta di epigrafia latina e Beni Culturali, ha inizialmente dato alle stampe il saggio storico: “Il municipium di Vibo Valentia, vincitore della borsa di Stduio indetta in ricodrdo di Michele Morelli nel 1991 e poi Terzo posto per la Saggistica storica al Premio di Feroleto Antico nel 2014. Debutta nella narrativa con il giallo archeologico : ”Il segreto della ninfa Scrimbia”, che si è aggiudicato il premio Nazionale “Le Parole di Arianna” ed è risultato finalista al prestigioso Premio Tropea. Pubblica poi “La signora del Pavone blu” un noir storico giunto al settimo riconoscimento nazionale e il saggio storico antiquario “Scrimbia” (Premio “Narrando per passione”, Messina, menzione d’onore). “Rosaria, detta Priscilla, e le altre – Storie di violenza e femminicidio” e “Angela la Malandrina – Storia di brigantaggio e libertà” sono i suoi racconti storici al femminile, sospesi tra indagine antropologica e psicologica, che riscuotono unanimi consensi: come a Venezia per il Premio Marzo Donna 2016, o la vittoria al Premio di Acireale “Racconti di Donna” 2015. Pubblicazioni del 2016 sono: “L’ombra di Diana”, romanzo storico incentrato sulla leggenda di Diana Recco (Monteleone, sec. XVI d.C.) e “Ragazza del Sud – Donne violenza e ‘ndrangheta.” Nel 2017 per il trentennale della morte della cantante calabro-francese Dalida pubblica “Cercando Jolanda” e dà avvio alla serie di racconti didattici per le scuole medie con “Gli occhi neri di Aisha” (l’immgrazione dei minori non accompagnati) e “Dài che ce la fai” (Bullismo e disagio pre-adolescenziale).

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