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8 aprile 2025

Reportage BLOG

EDITORIALE. «Mi amo troppo per stare con chiunque» e il diritto di dire NO


di LETIZIA CUZZOLA

Sara e Ilaria avevano 22 anni, l’età in cui di loro avremmo dovuto parlare solo al presente e non all’imperfetto, l’età in cui avrebbero dovuto far notizia per un traguardo raggiunto, perché a 22 anni non puoi finire in cronaca nera, non puoi essere una salma di cui celebrare il funerale. Oggi Sara e Ilaria sono questo, palloncini bianchi e lacrime, rabbia e preghiere. E non per casualità, per un fato avverso, ché se le disgrazie càpitano sono capitate, ma se sono premeditate, efferate, crudeli non le puoi chiamare neanche disgrazie.

Esiste un diritto che tutti abbiamo, ma che spesso per buona educazione, rispetto dell’altro dimentichiamo, è il diritto di dire “no”, di far notare all’Altro che ognuno di noi ha un suo spazio entro cui non bisogna entrare o lo si può fare, però, in punta di piedi e non in punta di coltello. Abbiamo il diritto di proteggerci ancor prima che di difenderci, di decidere che spazio fisico, mentale, emotivo può occupare qualcuno nella nostra vita. Di vita, ne abbiamo una sola e ce lo ha ricordato proprio Sara con quel «Mi amo troppo per stare con chiunque» che oggi è un po’ ovunque nel suo ricordo: ho cura di me, dei miei sogni, delle mie necessità e mi conosco a sufficienza da sapere quanti e quali paletti mettere, quanto piantarli in profondità per evitare che, per il Bene malato di un altro, io quella punta di coltello me la ritrovi alla gola. E non è egoismo dire di no, non è cattiveria alzare barriere, ma legittima difesa.

Il confine tra socialità, estroversione e disponibilità alla manipolazione, nella mente di una personalità disturbata è più labile di quanto si possa pensare: rispondere a un messaggio, una chiamata è cortesia, può essere anche un momento piacevole; entrare a gamba tesa nella routine di qualcuno, costringerlo a cambiare le proprie abitudini e sopportare l’ansia e l’angoscia di quel contatto è ben altro. Accade ogni giorno che quei confini che poniamo siano travalicati, che non ci si renda conto che obbligare qualcuno a darci attenzioni è violenza. Certo, le storie di Sara e Ilaria sono giunte al capolinea estremo, vittime entrambe di uomini figli di una cultura del possesso, del voler essere compresi a ogni costo, di una incapacità di accettazione del rifiuto, figlia a sua volta di una educazione affettiva che sicuramente sarà mancata.

Le morti di queste due ragazze ci devono interrogare, noi adulti, costringerci a fare i conti sul come, quando e perché abbiamo ceduto le armi di fronte ai nostri figli e abbiamo delegato la loro educazione a non si sa più neanche chi o cosa. Devono obbligarci a fermarci per un esame di coscienza: quante volte ogni giorno, anche nel piccolo, dimentichiamo che l’Altro con cui ci rapportiamo ha una sua vita in cui ci ha dato un preciso spazio? Quante volte pretendiamo di allargarci? Quanto ci dà fastidio lo stesso atteggiamento se siamo noi a subirlo?

Quando un bambino gioca con le bolle di sapone, fa di tutto perché non si rompano, mantiene le distanze e, per magia, ogni tanto qualcuna la si riesce anche a tenere in mano. Ricordiamocela questa magia la prossima volta che avremo la tentazione di irrompere nella vita di qualcuno o di rubarla.

 


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