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17 dicembre 2023

BLOG-le firme di Reportage

GIUDIZI UNIVERSALI #3.07: MARYLYN, MAO E L’ICONOGRAFIA COMUNE di Gianlorenzo Franzì


Il 16 dicembre è stata inaugurata, con un’apertura esclusiva per la stampa, la mostra su Andy Warhol Flashback, presso il Palazzo Greco Stella a Lamezia Terme: dal 17 dicembre al 17 marzo sarà aperta al pubblico.

Il vernissage di presentazione ha visto presenti il critico d’arte Maurizio Vanni (curatore della mostra e del catalogo relativo) e gl art advisors Massimo Ferrarotti di Spirale Arte e Luca Giglio di GilgioArt: e ha rappresentato una sorta di vera e propria inaugurazione delle attività del Palazzo, che dalle parole di Elena Vera Stella è un contenitore all’interno del quale intendono riversare arte e cultura in tutte le loro declinazioni, dalla pittura alla cucina fino al design e alla moda.

La mostra di Warhol, vero e proprio gigante, spartiacque non solo della storia dell’arte ma della Cultura dell’epoca moderna, è divisa in cinque settori tematici che non seguono un ordine cronologico ma stilistico.

Ci sono le celebri Marilyn, la zuppa Campbell, l’autoritratto dell’artista, alcune cover di vinili che hanno ufficialmente aperto un’epoca.

Ma l’arte di Warhol, così diffusa mentre intride non solo la cultura di massa ma il vissuto quotidiano di ognuno, è solo apparentemente levigata e “facile”, perché racchiude lo zeitgeist del Novecento e non solo, ed è quindi così stratificata da apparire quasi un totem.

Fin dagli inizi del suo operato, Andy Warhol incarnava alla lettera il paradosso dell’arte modernista: cioè avere una storia vera e propria pur essendo sotto l’incantesimo dell’eterna riproduzione di massa.

L’essere in bilico tra lo sprezzante isolamento dell’arte alta e l’universale pervasività delle rovine della cultura di massa della dominazione aziendale costituisce la dialettica fondante del ruolo artistico modernista.

Per Andy Warhol l’arte non ha a che fare con oggetti, ma con le loro riproduzioni, cioè con segni già elaborati dal sistema culturale di origine.

Sebbene Warhol abbia costruito le immagini di celebrità, il persistente fascino di questi dipinti non dipende dal mito ancora vivo dei personaggi rappresentati, ma dal fatto che lui realizzò una loro immagine dalla prospettiva della condizione tragica di coloro che consumano le immagini delle star all’interno dei culti scopici. Questa dialettica tra cultura dello spettacolo e compulsione collettiva (che rivela in ogni immagine che il glamour altro non è che uno straordinario riflesso della fissazione scopica collettiva) permea l’intera produzione del genio.

Warhol, che aveva basato la sua arte pure sull’onnipresenza del prodotto confezionato, ha realizzato le sue opere più notevoli rappresentando il crollo dello scambio delle merci. Sono casi in cui l’immagine realizzata in massa come espressione del desiderio fu rivelata in tutta la sua inadeguatezza dalla realtà della sofferenza e della morte. In questa categoria rientra la serie di Marilyn Monroe: cominciò questi quadri a poche settimane dal suicidio dell’attrice nel ’62, perché quella morte fu qualcosa con cui l’artista dovette chiaramente confrontarsi, e i suoi quadri rappresentano la tediosa elaborazione del lutto. E alcune delle scelte formali di Warhol rimandano direttamente ad una funzione commemorativa o funebre, in particolar modo la singola impressione del volto sullo sfondo oro di un’icona, segno tradizionale di un aldilà eterno. Tuttavia voleva suscitare delle questioni sul lutto di una celebrità: come ci si relazione alla sua morte? Cosa fare dell’assenza di una presenza immaginata che non c’è mai stata veramente? 1b48c6cf-6774-402f-a422-b0438f8a831a54bcc1b6-906a-4116-81cc-024145d3b88b88e8a6e5-eb5a-402e-a297-0c1956307f0388e09a5b-f5d8-4c0a-bb56-d680d958fce9722b2c6d-ef3f-4af5-91e3-de827037a4cdc11dc3fa-5f89-4b65-963b-4b13635443ef

L’inizio della serie delle Marilyn coincide con il momento in cui Warhol adotta la tecnica della serigrafia, ed esiste uno stretto legame tra tecnica e contenuto. La sua manipolazione e l’ingrandimento di un frammento monocromo prosciugano gran parte dell’immaginaria energia vitale delle star. Gli effetti intrinsecamente appiattenti e semplificativi della trasformazione da fotografia a matrice di tessuto e a tela inchiostrata sono più enfatizzati che mascherati. L’immagine serigrafica interamente riprodotta ha il carattere di un’impressione casuale. È una commemorazione in quanto si avvicina al ricordo: ostinatamente selettivo, a volte elusivo, vividamente presente, sempre aperto all’ornamento quanto alla perdita.

Questi concetti riposizionano il ruolo della ripetizione nel personaggio e nelle immagini di Warhol: lui ama la noia e la ripetizione, “più si guarda la stessa identica cosa, tanto più il significato scompare e tanto meglio e più vuoti ci si sente”. La ripetizione è un prosciugamento del senso ma anche una difesa dall’affezione, perché una delle funzioni della ripetizione è quella di reiterare un evento traumatico allo scopo di integrarlo nell’economia psichica, in un ordine simbolico. Tuttavia, le reiterazioni non sono affatto riabilitative, non mirano al dominio del trauma, suggeriscono una fissazione ossessiva e malinconica.

Nei primi anni sessanta, Jacques Lacan era impegnato a definire il reale in funzione del trauma: la sua teoria non era però condizionata dall’arte pop, ma influenzata dal surrealismo, che sortisce un effetto differito, e la pop art è collegata al surrealismo in qualità di realismo traumatico.

Lacan definisce il traumatico come un incontro mancato con il reale, e in quanto mancato il reale non può essere rappresentato ma solo ripetuto. In Warhol la ripetizione allora non è la riproduzione nel senso di simulazione, perché la ripetizione serve a schermare il reale concepito come traumatico.

Gianlorenzo Franzì 

 

 


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