L'Erudita
26 settembre 2018

Reportage libri e dintorni

La malasorte: ripartire dalla verità per ricominciare a vivere


Recensione del romanzo La Malasorte di Daniela Grandinetti a cura di Salvatore D’Elia

Accorgersi, dire bugie, ripartire dalla verità. In queste tre immagini/espressioni si può cogliere il filo rosso che lega i personaggi del romanzo di Daniela Grandinetti La Malasorte e che può legare le loro storie a quelle di ognuno di noi, aprendo tante piste di riflessione.

Accorgersi. La dinamica dell’accorgersi e del non accorgersi è la molla che nei personaggi del romanzo fa scattare dei cambiamenti di vita. Dalle cose più semplici e naturali di cui si accorgono per la prima volta i personaggi, come Cosma che passeggiando di notte si accorge per la prima volta della luna e si rende conto di quanto è bella o come Cettina che tornata dopo trent’anni a Sovara si accorge di quel luogo così segreto e suggestivo, immerso nella natura, dove la conduce Tilde. All’accorgersi e soprattutto al non accorgersi di realtà ben più complicate e drammatiche: non accorgersi che stiamo vivendo una vita che in realtà non è la nostra, che non vogliamo; non accorgersi come Cettina che il tempo passa e non ci resta nulla tra le mani; non accorgersi di un uomo brutale, come Mario, che Cettina chiama “la bestia” mentre Tilde accudisce come un padre. E del resto era suo padre. Accorgersi che, lo dice la parola stessa, è già un correggersi. Ma nella stessa parola c’è anche cor, cuore, da cui scatta la molla del cambiamento.

Dire bugie. Quante bugie dicono i personaggi del romanzo di Daniela Grandinetti. “Quante bugie ti ho detto fino ad oggi…”, dirà Cettina a Tilde, in una delle confessioni più importanti del racconto. E poco dopo Tilde dirà altrettanto, con un parto forse un po’ più complicato. I personaggi del romanzo si dicono tra loro tante bugie e soprattutto dicono tante bugie a loro stessi. Bugie per salvaguardare un’onorabilità sociale e non mostrare la bestia; la bestia che si è come nel caso di Mario, la bestia con la quale si convive come nel caso della mamma e della nonna di Cettina. Bugie per non ammettere le proprie sconfitte, come fa Cettina per tanti anni, restando a Milano e fingendo nei colloqui telefonici con Tilde una carriera di artista mai concretizzatasi. Bugie che, nel loro crollare di fronte ad una sorta di “arido vero” leopardiano, diventano quasi funzionali ai percorsi di riscatto delle donne protagoniste del libro.

E poi ripartire dalla verità. Arriva il momento di avere la verità di fronte e di ricominciare da quel vero per Cettina, per Tilde, per Elvira che metterà per iscritto nella lettera indirizzata alla figlia la verità sulla sua vita e su quella della sua famiglia. Per tutte arriva il momento di porsi di fronte alla verità. Solo per Cosma non arriva questo momento, a causa della violenza di don Natale che la strappa brutalmente alla vita. E non arriva per il papà di Cettina. Lui non cambia. Non si pone mai di fronte alla drammatica verità della sua vita e resta com’è, senza ombra di cambiamento morale. Solo con un corpo che lo sta abbandonando giorno per giorno e un cervello che lo ha già abbandonato.

A partire da questi tre elementi, i personaggi del libro di Daniela diventano metafore del nostro tempo. Di un tempo dove “non ci si accorge”: non ci si accorge della “non vita” che tante volte conduciamo e soprattutto non ci accorgiamo dell’altro. Non ci accorgiamo e peggio ancora facciamo finta di non accorgerci dei lividi lasciati dalle botte come nel caso di Elvira o delle ferite lasciate nell’anima delle persone più fragili. Di un “tempo” dove ci diciamo tante bugie, spesso per sopravvivere. E poi anche per noi la verità che prima sbatte dritta di fronte alla nostra faccia. Verità che è quella casa e quella poltrona dove si era consumata tanta violenza, verità di un amore che non è mai stato, di una vita che avremmo voluto diversa.

Cosma, che sembra essere legata esclusivamente al personaggio di Cettina, in realtà è legata a tutte le donne del romanzo di Daniela. Cosma potrebbe avere il volto di Anna Maria Scarfò, stuprata da un branco di bestie a tredici anni a S. Martino di Taurianova, additata dai suoi concittadini come la “malanova”, la portatrice di sventure, quella che “se l’è cercata” e ha infranto la regola dell’omertà. Cosma ha il volto della ragazza di Melito Porto Salvo, violentata dal branco, violentata dal silenzio complice di una famiglia e di un’intera comunità.
Il romanzo di Daniela Grandinetti ci fa riflettere su una Sovara che è emblema di una parte di Calabria che non cambia, dove ogni spiraglio di cambiamento è impossibile. Ma non per una malasorte. Forse perché non riusciamo a cambiare noi. E poi il tema dell’emigrazione di ieri e di oggi che non può essere ridotta a una sola questione economica quando, come nella vita di Cettina, si coglie ciò che porta ancora oggi ad emigrare: la consapevolezza di una realtà che non cambia mai, di una parte di Sud in cui una specie di malasorte vuole far restare tutto com’è, senza che cambi nulla.

E ancora, il romanzo di Daniela Grandinetti ha un respiro religioso che non si esaurisce solo nei tanti particolari della devozione popolare inseriti nella trama del racconto. E’ “religioso” l’interrogarsi dei protagonisti sulle domande fondamentali della loro vita: il senso, la fine, la felicità. C’è una visione “cristiana” della vita in tanta sofferenza e in tanto dolore da cui si trova la forza di ricominciare, dalla morte alla vita. E c’è infine la consapevolezza che, non c’è il fato paganeggiante o una malasorte superstiziosa, ma il punto di incontro tra un disegno di vita e la libertà della persona. Tra queste righe è scritta la vita dei personaggi, delle donne del romanzo di Daniela, metafore del nostro tempo, che cambiano e rivivono non quando si inventano una vita ma quando iniziano a vivere. La loro vita.
Salvatore D’Elia


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