Le pacchiane del gruppo folkloristico I Calabruzi di Lamezia Terme
31 gennaio 2017
Le pacchiane del gruppo folkloristico I Calabruzi di Lamezia Terme

Storia, miti e leggende della Calabria e del Sud

Le pacchiane lametine, bellezza e fierezza delle donne con la coda


E’ bello ricordare la pacchiana, mitica e fiera figura femminile della Calabria di un tempo, rimasta ormai solo in vecchie foto sbiadite e nei ricordi dei calabresi più anziani.

Il termine, che forse deriva dal greco pachys cioè grosso, si riferiva al mondo agricolo e indicava la donna contadina abbigliata con il costume tipico calabrese in uso dal 1600 fino alla metà del secolo scorso, talmente bello che fu spesso annotato e descritto dai molti viaggiatori stranieri del «Grand Tour».

Il massimo splendore delle pacchiane fu senz’altro raggiunto in alcuni paesi del Catanzarese come Tiriolo e Settingiano, dai costumi particolarmente elaborati con ricami, pizzi e merletti, e nella piana lametina, in particolare Sambiase e Nicastro poi divenute Lamezia Terme, dove le donne indossavano un originalissimo elemento in più: ‘a cuda, la coda, chiamata anche fadiglia.

Il costume delle pacchiane lametine era composto dalla suttana, un’ampia sottoveste di lino bianco con maniche, semplice o ricamata. Su questa, soprattutto nella zona di Sambiase, si indossava ‘u bustinu o cursè, un busto rigido nero allacciato sul davanti completato da u spalliari, una specie di gilet sempre nero con dei mezzi manicotti che, stretti sulle maniche della suttana, creavano graziosi sbuffi.

Le pacchiane nicastresi al posto dello spalliari intorno alle braccia e sulle spalle portavano u maccaturu , tessuto colorato le cui estremità si infilavano nel busto, sostituito in seguito dalla camigetta, camicia colorata dalle maniche lunghe o a tre quarti.

Sulla suttana, più in alto di due dita si indossava ‘u pannu, una sottogonna di colore diverso a seconda del ruolo della donna: ‘u pannu russu era delle maritate, quello viola delle schette, non sposate, quello nero delle vedove. Indispensabile era anche ‘u mantisinu (dal latino ante sinam, davanti al seno) o fadale, un grembiule con due tasche legato alla vita.

Infine sul pannu, la bellissima gunnella chiamata nel lametino anche fadiglia (dallo spagnolo faldilla, cioè falda, strascico), una gonna lunga a ruota di colore verde o blu, o anche nera, se la famiglia era in lutto, per la quale erano necessari da quattordici a sedici metri di stoffa, a seconda della taglia, cucita con una ricchissima plissettatura a nido d’ape.

Le pacchiane portavano con grazia la fadiglia raccolta all’altezza della vita e legata dietro con un nodo particolare, in modo da formare una splendida coda che dal fondoschiena scendeva elegantemente fino all’altezza delle caviglie. Si teneva sempre annodata e veniva sciolta solo durante le processioni e i funerali, quando si entrava in chiesa o comunque in compagnia di altre donne.

Il costume di pacchiana veniva indossato per la prima volta intorno ai quattordici, quindici anni e veniva tessuto e cucito dalla ragazza stessa. Indossarlo, segnava il passaggio dall’infanzia all’età adulta e fino all’Ottocento era un vero e proprio rito, che si svolgeva in tutte le famiglie insieme a parenti e amici in occasione delle feste di Natale, di Pasqua o dei santi patroni, come una presentazione in società della ragazza che ormai era da marito.

Il tutto era completato dal maccaturu, un foulard colorato che si teneva intorno al collo, d’inverno da ‘u fhazzulettuni, un grande scialle in lana che si avvolgeva intorno alle spalle, e nei giorni di festa dai gioielli, berlocchi, iannacche e boccule.

Non sappiamo perché e quando le lametine iniziarono a portare il costume con la coda o fadiglia. Probabilmente adottarono la moda cosiddetta a botte, che amplificava i volumi del corpo femminile con imbottiture, introdotta in Italia già nel Seicento da alcune nobili spagnole.

La moda si diffuse poi anche nei ceti bassi (che non usavano imbottiture, ma arrotolavano le stoffe delle gonne intorno al corpo) e scomparve circa un secolo dopo, ma non nella piana lametina in Calabria.

Certo è che il costume da pacchiana lo portavano tutte, tranne le poche signore appartenenti alla nobiltà, ed era uguale per tutte, si poteva solo arricchire con qualche merletto e ricamo in più.

Da queste notizie, possiamo ipotizzare quindi che l’economia della zona all’epoca consentiva a tutte le famiglie di acquistare e produrre il materiale per realizzare questi abiti piuttosto costosi, che facevano parte della dote e davano più valore alle figlie femmine.

La fadiglia certo rimase perché era bella. Quella coda colorata metteva in risalto le forme e rendeva le donne attraenti come vivaci uccelli o novelle sirene di un territorio dove, non dimentichiamo, anticamente si trovava la splendida città di Terina il cui simbolo era proprio una sirena, Ligea.

Ma in più, rispetto ad altri abiti dell’epoca, lasciava parecchia libertà di movimento, necessaria per le laboriose donne dei territori della piana che lavoravano duramente sia in campagna che in casa.

Questo spiegherebbe anche un’altra particolarità delle pacchiane lametine, che è quella di andare sempre a capo scoperto, tranne in chiesa oppure se erano in lutto stretto.

Un fatto inconsueto, che in altre zone a quei tempi era considerato un segno di sfrontatezza, se non addirittura di peccato, ma loro evidentemente avevano scelto di zappare la terra o lavare i panni al fiume senza impedimenti, guadagnandosi il rispetto di tutti semplicemente lavorando e tenendo un contegno serio e dignitoso.

Insomma le belle pacchiane lametine, donne lavoratrici e libere relativamente ai canoni dell’epoca, non avevano proprio nulla di rozzo o volgare nell’accezione moderna che si da al termine. Anzi con la grazia e la maestosità del loro portamento, erano la massima espressione della bellezza muliebre calabrese.
Annamaria Persico


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