Sono tormentato dall’ambivalenza di un sentire che mi attraversa, così direbbe per me Catullo.
Ambivalenza nella serata alla Ubik di Catanzaro Lido dove Nunzio Belcaro ospita e presenta Daniel Cundari poeta di una poesia strutturata, poeta di tre lingue, nel fascino della subordinazione totale alla poesia.
Mauro Minervino, amico e compagno di viaggio in “Stradario di uno spaesato” aveva già scritto di Daniel, nella somiglianza fra lui e l’altro, due spaesati eppure così legati alle radici, al paese d’origine. L’autenticità, la registrazione di passaggi nella visione dei luoghi, la lingua degli affetti, la forza del dialetto, sono questi i legami in comune.
La necessità di raccontare un paese, i luoghi, la vicina di casa Giuseppina, attraverso il gesto, con il corpo.
Una poesia recitata con la voce e con il gesto, per produrre disturbo, con il dialetto del luogo, fissata in un luogo, Cuti, il paese di Daniel da cui poi è andato via per vivere in Spagna, a Granada.
L’incendio e oltre di Daniel Cundari, per Mauro Minervino sono le ceneri che lascia il fuoco e domanda:”Cosa resta di un incendio se non la lingua?”
Accompagnato dal basso di Sasà Calabrese, Daniel Cundari inizia una miscellanea di versi in dialetto di Cuti, un dialetto primitivo, reinventato. Ho preso appunti sui versi che non riporto, non ho abilità nel trascrivere il dialetto, posso però raccontarvi la trasformazione, quasi una levitazione, in Daniel, man mano che si inoltra nei sentieri poetici.
Gesti e voce, corpo e movimento, fremiti e sussulti, eppure disciplina e professionalità, una somiglianza ai poeti che poi lui citerà in un attimo, Gregory Corso, i poeti della beat generation, e l’ossessione come possessione di un verso vivo. Respirato e gettato, accompagnato e regalato.