angeli-nativita
27 dicembre 2018

Storia, miti e leggende della Calabria e del Sud

Quell’antica e dolce litania natalizia in dialetto sambiasino


di Francesco Gaspare La Scala

Ho casualmente riascoltato, ieri, con acutissimo interesse la registrazione di alcuni brani della Litanìa natalizia cantata, nel dialetto nostro, da un’anziana donna sambiasina (*)
ASCOLTA il canto (VIDEO).
Nei miei ricordi era rimasta vagamente impressa una nenia dal sapore arcaico che si snodava quietamente, senza modulazioni tonali drammatiche né escursioni di volume significative. Di quella stessa dolcezza delle ninne-nanne che inducevano al sonno noi bambini.

Nella trama melodica di quei canti si annidava una impercettibile ma efficacissima scansione metrica che aveva il potere di rapire i sensi e di condurli ai confini di una percezione superiore che trasformava ogni forma di tristezza in dolce nutrimento dell’anima: era la sostanza degli innocenti sonni fanciulleschi e la linfa ritmica vitale di ogni umile esistenza condotta tra le spine.
Quei canti e quelle nenie erano, così come li porto ancora scolpiti nel cuore, punteggiati da misteriose pause collocate magicamente per aprire silenzi sovrumani ricchi di mute pulsazioni di un “esserci” insopprimibile.

Se ascoltate con attenzione la registrazione, che ripropongo, vi accorgerete di queste numerose cesure in cui si ferma la voce ed il respiro. Si avverte chiaramente che sono squarci di silenzio brevissimi, delle fessure che lasciano entrare l’angoscia e la tristezza della vita quotidiana, come in un coro polifonico: concetti inesprimibili veicolati solo da un apparente, ma eloquente, silenzio.

Si, solo apparente, perché il silenzio assoluto non può esistere. In qualsiasi silenzio c’è sempre un’eco della vita che interferisce e che afferma l’esistenza. John Cage, musicista teorico del silenzio dello scorso secolo, lo scoprì in una camera anecoica della Harvard University dove ascoltò comunque, in isolamento blindato, il rumore del suo sangue e del suo sistema nervoso.

Ho notato che questo ritmo caratterizzato da pause nette si ripropone sempre, specie nei nostri canti religiosi. Nelle processioni affollatissime di fedeli di una volta, in cui i canti si accavallavano ad ondata, queste cesure diventavano teatralmente drammatiche e ricche di suggestione: il Venerdì Santo questi “iati” nei canti erano di una solennità che metteva soggezione per l’irripetibile sintesi di tensione che racchiudevano.

Già nel parlare ordinario i nostri anziani rispettavano una metrica naturale, piacevolissima a sentirsi. Gli spartiti e le scansioni dei ritmi cambiavano con le stagioni, con il variare del tempo e delle attività da svolgere. C’era una sorta di canzone o di “recitativo” per ogni occasione. Che da monodìa gregoriana diventava improvvisamente polifonia quando sopraggiungevano le altre voci paesane. L’accompagnamento era sempre il “basso ostinato” della difficoltà di vivere e di ritrovare ogni giorno nuova speranza.

Una congiura di dementi locali sta tentando in tutti i modi di mettere il bavaglio definitivo a queste originalissime melodie ed espressioni dando spazio ad eventi di pura omologazione, privi di qualsiasi reale spessore culturale.
È tutta gente che non apprezza il ritmo antico che ha nel sangue, non perché non conosce i Coltrane Changes o il piede Pirricchio Molosso, ma perché è resa anemica dalla negazione delle proprie radici.

(*) Ringrazio il sensibilissimo amico Antonio Martello che ha saputo raccogliere questa preziosa testimonianza direttamente dalla voce della sua anziana madre alla quale va la gratitudine di tutti noi.


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